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L'oro della medaglia olimpica non sbiadisce mai: Stefano Baldini PDF Stampa E-mail
Venerdì 27 Settembre 2019 13:00

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Due copertine abbastanza insolite. La prima, a sinistra, riproduce quella del numero del mese di aprile 1998 della rivista «Atletica Leggera», e mette insieme due dei grandi atleti che saranno poi protagonisti della maratona olimpica di Atene: Paul Tergat che aveva appena vinto il suo quarto titolo mondiale consecutivo di corsa campestre, e un giovane Stefano Baldini che di lì a pochi mesi avrebbe vinto il titolo europeo di maratona. Stefano campione olimpico, Paul solo decimo, amareggiato. A destra la copertina dell'instant book pubblicato dalla «Gazzetta dello Sport» subito dopo Atene; fra i curatori il nostro socio Paolo Marabini

Era il 29 agosto 2004...Ultimo giorno dei Giochi della XXVIII Olimpiade, nella stessa città che vide la prima edizione 108 anni prima, uscita dalla fantasia di un pedagogista sognatore e dai quattrini di ricchi uomini d'affari greci affascinati da questo mito olimpico. Atene, inesauribile fonte di retorica ma indubitabile scrigno di cultura, dal 1896 ha dovuto attendere fino al 2004 per ripetere la liturgia olimpica. Da quanto si è visto a posteriori non ha fatto un grande affare, contribuendo anzi in maniera decisiva al disastro economico del Paese: secondo noi non sono i Giochi in se stessi ma la megalomania dei dirigenti colpevole di questo fascio. E oggi le uniche tracce visibili sono le rovine dei templi sportivi eretti con soldi pubblici e affidati a eredi di Licurgo, Erode Attico, Anastasios Metaxas e Ernst Ziller. Semplicemente una vergogna. Ma non solo la Atene olimpica moderna è ridotta in questo deplorevole stato di abbandono. Ma, come dicevamo e lo ribadiamo, la follia degli uomini (nel caso della capitale greca, donna) che non conosce limiti e continua a rinnovarsi, non per la gloria degli atleti che cingono anacronistiche coroncine d'alloro da due soldi, ma per quella di scapestrati dirigenti che si comportano come satrapi. I quali non pagano di tasca loro. E i babbioni del Comitato olimpico internazionale, zitti, per carità, loro pensano ai prossimi stadi da far costruire a spese dei cittadini.

Invece il signor Georgios Averoff , uomo d'affari e filantropo, i soldi per lo Stadio che molti chiamano Panathenian Stadium li mise di tasca sua. E che il mondo sia sempre uguale a se stesso lo dimostra questo piccolo dettaglio: inizialmente il progetto doveva costare 585.000 dracme, alla fine ne costò 920.000. Chissà se c'era anche allora Mani Pulite...Gli ateniesi preferiscono chiamarlo Kallimarmaro, perchè era tutto di marmo. E in quei marmi tirati a lucido - più o meno - il 29 agosto 2004 - fece la sua entrata trionfale un giovanotto emiliano, reggiano, buono come il formaggio che si produce nelle sue terre d'origine. Stefano Baldini ve lo facciamo raccontare da Pierangelo Molinaro, all'epoca stipendiato dalla rosea «Gazzetta dello Sport». Lo scritto che vi proponiamo lo abbiamo ripreso dalle pagine della rivista «Atletica», edizione post-olimpica.

Ma non possiamo ignorare un episodio che riguarda il biondino di Castelnuovo di Sotto e noi, sì, proprio noi, soci dell'Archivio Storico dell'Atletica Italiana Bruno Bonomelli. È il Primo Maggio 1994, siamo a Brescia, la mattina la spendiamo in una sala del Novotel per il convegno ricordo della figura di Bruno Bonomelli. Nel pomeriggio ci trasferiamo quasi tutti al campetto ex Campo Scuole anni '50 messo a fianco di una azienda che produceva e spandeva veleni, campetto intitolato alla memoria del prof. Sandro Calvesi, dove si corrono i 25 giri per un totale di diecimila metri, che assegnano il titolo di campione italiano di quella distanza. Vinse Stefano Baldini, era il suo primo titolo, ci pare. Quello stesso giorno, torniamo al mattino, nacque l'A.S.A.I. Chi di noi era ad Atene quel 29 agosto 2004 a gioire per Stefano campione olimpico, non potè fare a meno di ripensare a quel Primo Maggio di dieci anni prima, a Bruno Bonomelli e a quel suo viaggio in auto da Brescia ad Atene, nel 1969, per ripercorrere, fin dove possibile, tappa dopo tappa quel tragitto che Carlo Airoldi aveva fatto a piedi per presentarsi ai primi Giochi Olimpici e vedersi respinto come un appestato.

 

Ventitrè anni di corsa per raggiungere Atene

di Pierangelo Molinaro

Chissà cosa è passato per la testa di Stefano Baldini quando è entrato solitario nello stadio Panathinaiko. Gli ultimi chilometri sono stati una cavalcata splendida verso un destino che stava per avverarsi. Solo, con quelle due ali di folla tutta per lui e in attesa da ore per vedere chi sarebbe stato il Dio di Maratona. Perchè di maratone ne correranno ancora cento, mille, un milione, ma nessuna sarà mai più come questa. Vincitore come Spyridon Louis, pastore di Maroussi, 108 anni fa. Anche Spyridon era entrato da solo in questo stadio. Adesso la pista è nera, asfaltata, allora era di carbonella e gli ultimi pesanti passi di Spyridon alzavano polvere. Stefano no, La sua falcata è leggera, potente, sicura. Non c'è neppure bisogno di voltarsi per vedere se qualcuno è riuscito a seguire il suo ritmo infernale, un ritmo costruito in anni di fatica, di vittorie, di delusioni, di infortuni.

Niente è da buttare in un giorno come questo. Un giorno che basta da solo a rendere leggendaria una carriera. Vincitore ad Atene, nella maratona olimpica. Nessun avversario, nessun primato potrà mai cancellare questa impresa. Rimane scolpito nella pietra della storia, quella che rende giustizia, che pareggia il destino, che premia chi ha saputo lavorare per costruire un sogno.

Chissà cosa ha pensato Baldini in quella lunga, interminabile curva a sinistra che immette sull'asfalto del Panathinaiko. Se a quella sera, quando aveva 10 anni, in cui si nasose nella machina dei fratelli maggiori Marco e Giuseppe per andare a correre al campo. Lui giocava al pallone, ma c'era un fascino in quella corsa fine a se stessa che il pallone non poteva avere. E poi le non competitive, lui bimbetto magrolino che batteva i grandi. Corri Stefano, corri verso il tuo sogno.

E poi la pista, le prime gare vere. L'era più dura, come le finali dei Giuochi della Gioventù del 1985 in cui non riuscì neppure ad approdare alla finale dei 2000 metri. Ma il suo sogno era più grande, lo Stadio dei Marmi di Roma non poteva contenerlo. Forse quel sogno così grande era riuscito a vederlo anche Emilio Benati, il suo primo allenatore. Stefano correva, spingeva, gioiva. Sì, pochi ragazzi provavano quel piacere nella corsa,era una gioia allenarlo. Nell'88, a 17 anni, quando le distanze lunghe della pista erano sotto il segno di Totò Antibo, Stefano correva i 5000 in 14:41.2. Già, nel 1988, quando Stefano si svegliò all'alba per vedere il trionfo di Gelindo Bordin ai Giochi di Seoul. Una cavalcata esaltante, l'ultimo avversario, il gibutiana Salah, staccato di forza. Gelindo quel giorno non aveva l'orologio al polso, seguiva il ritmo del suo cuore. E in quell'alba si accese il contatto, anche il cuore di Stefano vibrò, quella parola, maratona, entrò nella sua anima come una saetta. Ma non fece danni, si accucciò cheta in un angolo di quell'anima pulita pronta a fiammeggiare ancora.

Chissà se Stefano ha ripensato a quei giri di una pista sempre uguali, se li ha contati. Un milione? Mah. Per il suo sogno era sempre là, davanti, a correre su quella stessa pista come una lepre imprendibile. Corri, Stefano, corri.

Sei titoli itliani dei 10000, un 18esimo posto sulla stessa distanza ai Giochi di Atlanta. Sì, nel 1996, forse la pista era diventata troppo corta per il suo sogno troppo grande. Chissà se Baldini ha ripensato a quella sua prima maratona dell'ottobre 1995 a Venezia, quei ponti assassini della parte finale, quel sesto posto che gli diceva che poteva diventare un maratoneta. Come può un sogno farti vivere con il cuore in gola per due ore? Però, che fascino. C'era qualcosa di diverso in fondo a quella fatica nuova. Anche concludere, arrivare in fondo, era una gioia. Chissà se Stefano ha ripensato alle parole di Gigliotti:"Tu sarai un maratoneta, un grande maratoneta, ma ci devi credere".

Facile a dirsi sul viale del trionfo prima di entrare nel Panathinaiko. Ma allora? In quel '96 aveva riprovato a New York ma si era ritirato, aveva riprovato a Londra nell'aprile '97 dopo il primo inverno vero di lavoro da maratoneta ed era stato beffato dal protoghese Pinto. Forse anche qui, come in pista, mancava qualcosa? Il dubbio, un brutto compagno di viaggio. La prima vittoria arrivata agli Europei di Budapest nel '98. Grande gara, ma senza gli africani. Li avrebbe trovati due anni dopo ai Giochi di Sydney. Ecco dove andava a parare il grande sogno.

Chissà se Stefano, abbagliato dai riflettori dello stadio Panathinaiko, ha ripensato a quel dramma. Due anni di lavoro durissimo, la convinzione di poter competere con i migliori maratoneti del mondo sino a quel dolorino subdolo all'anca un giorno in allenamento, una settimana prima di partire per l'Australia. Un dolorino, quanti ne avrà avuti Stefano? Ma più ci correva sopra e più faceva male, sino a fermarlo. Che dramma quel giorno. A 29 anni sapeva che partiva nella maratona più importante della sua vita con un conto alla rovescia dentro, forse più corto del tempo necessario per percorrere 42 chilometri e 195 metri: il dolore all'anca. Inesorabile. Ecco Stefano fermo a bordo della stada, eccolo piangere.

Per papà Tonino, che anche quando la grandine distruggeva il raccolto a Castenuovo di Sotto, non mollava. Abbassava la testa, si rimboccava le maniche e ripartiva da capo. Certo si poteva risorgere, ma per un'altra Olimpiade bisognava aspettare altri 4 anni.

Però il destino, come vede lontano...Vincere a Sydney non sarebbe stata la tesa cosa di Atene, Atene, sulla pista di Spyridon Louis. Era scritto.

Ecco i riflettori, la folla del Panathinaiko. Certo che solo quattro mesi prima Stefano non avrebbe creduto di poter battere Tergat e Gharib. Alla maratona di Londra Rutto e Korir gli erano scappati via. Imprendibili. E la progressione di Gharib lo scorso anno ai mondiali di Parigi gli aveva frustato l'anima. "Sarò mai capace io di seminarli?" si chiedava Baldini. Ma venti minuti prima di entrare in quello stadio Panathinaiko che lo abbracciava, Stefano li ha seminati, distrutti. Quella salita sino alla porta di Atene lo ha aiutato, quella pendenza subdola che poteva essere interpretata solo con l'esperienza accumulata in 23 anni di corsa. Ventitrè anni, centomila chilometri e passa, due volte e mezzo il giro dell'Equatore. Di corsa.

Kefleghizi, Lima, niente e nessuno poteva fermarlo. Il grande sogno là davanti, sotto la luce abbagliante del Panathinaiko, nell'urlo della folla. No, nulla di questi 23 anni è stato sprecato, tutto in fila, ordinato, una lunga scala progettata dal destino sino qui. Ad Atene.

Ultimo aggiornamento Lunedì 30 Settembre 2019 16:36
 
Trekkenfild: amici ASAI, diamo una mano a 'sti ragazzi ad arrivare al 42esimo km PDF Stampa E-mail
Martedì 17 Settembre 2019 07:49

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Dice che c'entrano Trekkenfild, i ragazzi e i 42 km? La rivista online numero 74 ce l'avete qui da leggere; i ragazzi, stagionatelli ma vispi, sono Daniele Perboni e Walter Brambilla che di questo foglio impalpabile sono gli ideatori, i redattori, i propugnatori, per qualcuno i rompiballe. Infine i 42 km, ovvio riferimento alla maratona, prende spunto dalla notizia-appello a pagina 4, che Daniele e Walter lanciano da qualche mese nel tentativo - quasi riuscito - di reperire fondi, attraverso una sottoscrizione libera, per dotarsi di strumenti tecnici adeguati alla produzione del loro «foglio». Non hanno editori, non hanno pubblicità, non hanno finanziatori occulti, non chiedono quattrini per andare a spasso. Li chiedono per poter continuare a dir la loro, in piena libertà. Una delle poche voci vive di questo opaco mondo atletico. Piaccia o non piaccia quello che scrivono. Ricordate la famosa frase, abusata e stra-abusata: non la penso come te ma mi batterò perchè tu possa sempre esprimere liberamente la tua opinione. Frase che nel nostro Paese, e non solo nel nostro, sembra stia perdendo rapidamente di significato...

E noi dell'A.S.A.I., che mai abbiamo avuto un tangibile aiuto alle nostre pubblicazioni (circa 35 in 25 anni) o alle nostre ricerche, siamo particolarmente sensibili alla «battaglia del grano» di Trekkenfild. Abbiamo anche creato un legame operativo: noi, da anni, pubblichiamo l'annuncio dell'uscita dei vari numeri, e loro, a partire da questo numero 74, pubblicheranno uno «strillo» per ricordare il nostro lavoro. Noi ci dedichiamo alla storia dell'atletica italiana, loro alla attualità. Un effetto trascinamento, il vecchio «una mano lava l'altra...». I nostri trentamila contatti mensili possono servire anche a loro, e noi - speriamo - che i loro lettori siano altrettanto attenti al passato del nostro movimento.

Ultimo aggiornamento Martedì 17 Settembre 2019 09:48
 
Nebiolo, Mennea, il primato del mondo, e la benedizione del Serpente Piumato PDF Stampa E-mail
Sabato 14 Settembre 2019 16:49

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Primo Nebiolo, Pietro Mennea e Carlo Vittori, esultanti, qualche attimo dopo l'annuncio del nuovo primato mondiale dei 200 metri

Augusto Frasca, a quel tempo, era il Capo Ufficio Stampa della Federazione italiana di atletica leggera. Un «tempo» che durò quasi venti anni, fino alla fine dell'Era Nebiolo e l'inizio dell'Era Gola, questa fu questione di poche settimane poi lui stesso decise di uscire dalla porta principale. Augusto ha vissuto da dentro venti anni di atletica nebioliana, momenti esaltanti, altri angoscianti. Augusto potrebbe scrivere un corposo volume prendendo a prestito il titolo di un libro di Giulio Andreotti, «Visti da vicino», da molto vicino. E, se leggete con attenzione, traspare in queste non molte righe che, su nostra insistenza, ha calibrato per noi. Righe non molte, come nella formazione culturale dell'autore, significati su cui riflettere, anche a distanza di 40 anni, tanti. E noi gliene siamo grati.

Qualcuno si chiederà cosa c'entra il Serpente Piumato, Quetzalcoatl, una delle principali divinità della cultura azteca (che ne ha ben 67...). Ma il Serpente Piumato, normalmente verde, occupa un posto primario. E sotto la sua protezione, Nebiolo, Vittori e Mennea ebbero la loro giornata di gloria.

Nella testa di Nebiolo

di Augusto Frasca

...quel primato viveva da tre anni. Ne aveva previsto la possibilità in una serata autunnale romana del 1976 dinanzi ad un distratto piatto di pasta in un ristorante di viale Parioli, maledicendosi per aver assegnato a Sofia l'edizione delle Universiadi 1977. Quando il dirigente torinese scelse Città del Messico per la scadenza successiva, fece il possibile per favorirne, insieme con le garanzie organizzative, il massimo della visibilità, assicurandosi, da parte del ministro messicano Guillermo Lopez Portillo, l'intero finanziamento della trasferta per una copiosa pattuglia di giornalisti. A risultato acquisito, né subito, né in futuro, secondo un costume che avrebbe più avanti avuto come vittima anche Carlo Vittori, tenuto dall'atleta completamente all'oscuro in occasione dell'improvviso ritiro dall'agonismo, dell'intera operazione messicana – di cui Nebiolo, nel duplice ruolo di presidente federale e dell'organismo universitario internazionale, fu inventore dalla a alla zeta – Mennea non mostrò mai riconoscenza. Dietro un grande atleta, e Pietro Mennea è tra i più grandi nella storia dell'atletica nazionale, non deve necessariamente sussistere una grande epica e un grande uomo. Di quell'atteggiamento viziato e di una sceneggiatura non nuova, contribuendo ad una cosciente alterazione della realtà, si ritroveranno così molti anni dopo, con la complicità di disinformatori in servizio permanente effettivo, tracce visibili in una sciagurata ricostruzione cinematografica.  

Ultimo aggiornamento Martedì 17 Settembre 2019 09:08
 
México e nuvole..., ricordo di un pomeriggio nuvoloso a Città del Messico PDF Stampa E-mail
Venerdì 13 Settembre 2019 14:31

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Momenti di esultanza allo stadio messicano dopo l'annuncio del tempo mondiale: Pietro Mennea e il professor Carlo Vittori danno sfogo alla loro gioia. Nel mezzo si intravvede Primo Nebiolo, presidente della Federazione mondiale universitaria, la F.I.S.U.

Giorgio Barberis, a quel tempo inviato del quotidiano torinese «La Stampa»...oggi inviato dell'Archivio Storico dell'Atletica Italiana Bruno Bonomelli. ci riporta a quel giorno, 12 settembre 1979, quando Pietro Mennea corse i 200 metri in un tempo riconosciuto come nuovo primato del mondo: 19"72. Lo ringraziamo per la sollecita risposta alla nostra richiesta.

A ripensarci adesso...

di Giorgio Barberis

...quarant’anni dopo, quel 12 settembre nello stadio Azteca di Città del Messico ha qualcosa di surreale: il cielo nuvolo pronto a rovesciare scrosci di pioggia (che fortunatamente quel giorno non ci furono), pochi spettatori sugli spalti, una gara senza storia visto il distacco che il primo inflisse al secondo. Di concreto rimane però anche la curiosità con cui, noi inviati dei nostri giornali, attendevamo quei 200 metri di Pietro Paolo Mennea da Barletta, peraltro dubbiosi perché il Mennea visto in semifinale, dopo il 19”96 della batteria, aveva generato qualche perplessità e si temeva ormai avesse dato il meglio di se stesso. Il record del mondo? Non ricordo che qualcuno avesse azzardato un’ipotesi del genere e se l’interessato, Carlo Vittori o Primo Nebiolo avessero in cuor loro presupposto tanto, non lo avevano manifestato alla vigilia. Si pensava ad un tempo intorno ai 19”95, nel migliore dei casi qualche centesimo di meno, ma non tanto da correre più veloce di quel 19”83 di Tommie “Jet” Smith che rappresentava il top assoluto.

Erano le 15,20 locali (le 23,20 in Italia, con i giornali pronti ad andare in stampa, che avevano tenuto una finestrella aperta nelle pagine sportive per dare l’esito della gara) quando il tabellone dello stadio sentenziò 19”72, creando il caos: di corsa in sala stampa, a parlare direttamente con un collega della redazione che avrebbe riempito le poche righe a disposizione con quello che gli veniva raccontato velocemente, mentre un altro collega si occupava del titolo. Poi, nella successiva ribattuta (da effettuarsi il più celermente possibile) il pezzo dell’inviato, dettato ovviamente a braccio (cioè senza averlo materialmente scritto, ma basandosi sugli appunti di un’improvvisata scaletta) in corsa con il tempo, quasi a rivaleggiare con il record del quale eravamo stati testimoni.

Purtroppo l’archivio storico online de «La Stampa» propone solo la prima edizione del giornale e dunque è stato vano da parte mia andare a cercare il servizio che dettai, per riscoprire le sensazioni di quegli attimi. Quel che ricordo è che, a differenza dell’anno precedente quando a Brescia la Simeoni saltò 2,01 ed io per almeno venti minuti rimasi davanti al foglio bianco nella macchina da scrivere con la sensazione che qualsiasi pensiero era troppo misera cosa di fronte all’impresa di Sara (questo lo rammento nitidamente), dominai agevolmente l’emozione. Mennea, personaggio controverso e umorale, non mi ha mai trasmesso sensazioni extra e per certi versi credo che scrivere di lui abbia rappresentato più un piacere perché era un modo significativo per parlare di atletica, che una celebrazione del grandissimo campione che è stato.

Andando a scartabellare quanto scrissi sul giornale del giorno successivo, credo che emerga un ritratto di Pieretto (sovente lo si chiamava con questo diminutivo) che spiega il rapporto che si aveva con l’uomo. Ed allora lo ripropongo perché credo valga ben di più di altri sfumati ricordi.

“Sono passate circa due ore da quei magici diciannove secondi e settantadue centesimi che gli hanno dato il primato del mondo: intorno a lui ci si accalca per scoprirne gli umori, per decifrare le sensazioni che sta vivendo. Di lui si cerca di scoprire quegli aspetti che ancora non si conoscono, il significato della vittoria contro il tempo, dell'essere l'uomo più veloce del mondo con una media oraria di 36,511. Mennea risponde pacato, gli occhi luccicanti: mantiene una lucidità impressionante, rifiuta un commento a caldo per non rischiare di lasciarsi troppo trasportare dall'entusiasmo, arriva a dire che non ritiene questo possa essere il momento più felice della sua vita «in quanto l'atletica non è tutto». Poi rivive la sua giornata, il timore di non poter fare più di quanto aveva già fatto. «Come ho fatto a recuperare? Andando ai blocchi di partenza ho pensato che questa era per me l'ultima occasione, che non sapevo se ce ne sarebbe stata un giorno un'altra. Così ho cercato di dare il massimo, innanzitutto proponendomi di curare a fondo la partenza e di correre bene almeno la prima parte della gara».

E infatti è schizzato via dai blocchi splendidamente: cinquanta metri favolosi, un piccolo rilassamento (quale può esserci in una gara di sprint) e quindi un distendersi in nuove frequenze vertiginose che hanno lasciato stupito lo stesso Vittori. Questo fino all'ultimo metro, in spinta costante, con gli avversari inghiottiti in un batter d'occhio, poi come tanti gnomi a rincorrere il gigante. Sul traguardo Mennea non si è girato: «Aspettavo un segno qualsiasi che mi dicesse com'ero andato. Sinceramente non mi sono reso conto di aver fatto il record del mondo se non quando ho visto il presidente Nebiolo saltellare quasi fosse un atleta. Allora ho alzato gli occhi, ormai certo di aver fatto un grande tempo».

Con il fiato ancora rotto dallo sforzo, Mennea è rimasto qualche attimo immobile: quei numeri scritti sul tabellone sembravano qualcosa di irreale, di incredibile. Neppure l'altoparlante che pochi istanti dopo ufficializzava il tempo sembrava bastare a Pieretto, che ancora durante la premiazione — cioè quasi due ore dopo — si è voltato innumerevoli volte a rileggere il proprio nome con a fianco la prestazione realizzata. «Volevo un grosso risultato. Ma il record del mondo mi sembrava troppo», confida ancora Mennea. E aggiunge: «Tutti i sacrifici ti vengono pagati da queste cose che restano nella storia dell'atletica»”. Indubbiamente, aveva ragione.

Ultimo aggiornamento Martedì 17 Settembre 2019 09:05
 
Estadio Universitario, México City, ore 15.15, finale dei 200 metri, Mennea, 19.72 PDF Stampa E-mail
Giovedì 12 Settembre 2019 09:37

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12 settembre 1979 - 12 settembre 2019. Quarant'anni da quel giorno, da quel primato, 19.72, da quel primatista, Pietro Mennea. Erano le 15,15 del pomeriggio, le 23,15 in Italia. Nell' Estadio Universitario di México City, quello stesso che era servito per i Giochi della XIX Olimpiade del 1968, era in programma la finale dei 200 metri dei Giochi mondiali universitari, la Universiada, come la chiamavo lassù. Quattro decenni fa, quel pomeriggio, in quel posto, c'erano quattro persone che, a titolo pressochè uguale, di professione parliamo, erano lì e videro quella straordinaria volata del giovanotto di Barletta. Chi erano? Ve lo faremo scoprire nei prossimi giorni, con la speranza che ciascuno di loro ci racconti quel pomeriggio, ci faccia partecipe di qualche episodio, aneddoto, sentimento. Nell'attesa, alziamoci reverenti nel ricordare Pietro Mennea, che ci lasciato troppo presto. Corrediamo queste poche righe con la copertina che la rivista «Atletica Leggera» dedicò all'eccezionale evento.

Ultimo aggiornamento Giovedì 12 Settembre 2019 16:12
 
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