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L'oro della medaglia olimpica non sbiadisce mai: Stefano Baldini PDF Stampa E-mail

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Due copertine abbastanza insolite. La prima, a sinistra, riproduce quella del numero del mese di aprile 1998 della rivista «Atletica Leggera», e mette insieme due dei grandi atleti che saranno poi protagonisti della maratona olimpica di Atene: Paul Tergat che aveva appena vinto il suo quarto titolo mondiale consecutivo di corsa campestre, e un giovane Stefano Baldini che di lì a pochi mesi avrebbe vinto il titolo europeo di maratona. Stefano campione olimpico, Paul solo decimo, amareggiato. A destra la copertina dell'instant book pubblicato dalla «Gazzetta dello Sport» subito dopo Atene; fra i curatori il nostro socio Paolo Marabini

Era il 29 agosto 2004...Ultimo giorno dei Giochi della XXVIII Olimpiade, nella stessa città che vide la prima edizione 108 anni prima, uscita dalla fantasia di un pedagogista sognatore e dai quattrini di ricchi uomini d'affari greci affascinati da questo mito olimpico. Atene, inesauribile fonte di retorica ma indubitabile scrigno di cultura, dal 1896 ha dovuto attendere fino al 2004 per ripetere la liturgia olimpica. Da quanto si è visto a posteriori non ha fatto un grande affare, contribuendo anzi in maniera decisiva al disastro economico del Paese: secondo noi non sono i Giochi in se stessi ma la megalomania dei dirigenti colpevole di questo fascio. E oggi le uniche tracce visibili sono le rovine dei templi sportivi eretti con soldi pubblici e affidati a eredi di Licurgo, Erode Attico, Anastasios Metaxas e Ernst Ziller. Semplicemente una vergogna. Ma non solo la Atene olimpica moderna è ridotta in questo deplorevole stato di abbandono. Ma, come dicevamo e lo ribadiamo, la follia degli uomini (nel caso della capitale greca, donna) che non conosce limiti e continua a rinnovarsi, non per la gloria degli atleti che cingono anacronistiche coroncine d'alloro da due soldi, ma per quella di scapestrati dirigenti che si comportano come satrapi. I quali non pagano di tasca loro. E i babbioni del Comitato olimpico internazionale, zitti, per carità, loro pensano ai prossimi stadi da far costruire a spese dei cittadini.

Invece il signor Georgios Averoff , uomo d'affari e filantropo, i soldi per lo Stadio che molti chiamano Panathenian Stadium li mise di tasca sua. E che il mondo sia sempre uguale a se stesso lo dimostra questo piccolo dettaglio: inizialmente il progetto doveva costare 585.000 dracme, alla fine ne costò 920.000. Chissà se c'era anche allora Mani Pulite...Gli ateniesi preferiscono chiamarlo Kallimarmaro, perchè era tutto di marmo. E in quei marmi tirati a lucido - più o meno - il 29 agosto 2004 - fece la sua entrata trionfale un giovanotto emiliano, reggiano, buono come il formaggio che si produce nelle sue terre d'origine. Stefano Baldini ve lo facciamo raccontare da Pierangelo Molinaro, all'epoca stipendiato dalla rosea «Gazzetta dello Sport». Lo scritto che vi proponiamo lo abbiamo ripreso dalle pagine della rivista «Atletica», edizione post-olimpica.

Ma non possiamo ignorare un episodio che riguarda il biondino di Castelnuovo di Sotto e noi, sì, proprio noi, soci dell'Archivio Storico dell'Atletica Italiana Bruno Bonomelli. È il Primo Maggio 1994, siamo a Brescia, la mattina la spendiamo in una sala del Novotel per il convegno ricordo della figura di Bruno Bonomelli. Nel pomeriggio ci trasferiamo quasi tutti al campetto ex Campo Scuole anni '50 messo a fianco di una azienda che produceva e spandeva veleni, campetto intitolato alla memoria del prof. Sandro Calvesi, dove si corrono i 25 giri per un totale di diecimila metri, che assegnano il titolo di campione italiano di quella distanza. Vinse Stefano Baldini, era il suo primo titolo, ci pare. Quello stesso giorno, torniamo al mattino, nacque l'A.S.A.I. Chi di noi era ad Atene quel 29 agosto 2004 a gioire per Stefano campione olimpico, non potè fare a meno di ripensare a quel Primo Maggio di dieci anni prima, a Bruno Bonomelli e a quel suo viaggio in auto da Brescia ad Atene, nel 1969, per ripercorrere, fin dove possibile, tappa dopo tappa quel tragitto che Carlo Airoldi aveva fatto a piedi per presentarsi ai primi Giochi Olimpici e vedersi respinto come un appestato.

 

Ventitrè anni di corsa per raggiungere Atene

di Pierangelo Molinaro

Chissà cosa è passato per la testa di Stefano Baldini quando è entrato solitario nello stadio Panathinaiko. Gli ultimi chilometri sono stati una cavalcata splendida verso un destino che stava per avverarsi. Solo, con quelle due ali di folla tutta per lui e in attesa da ore per vedere chi sarebbe stato il Dio di Maratona. Perchè di maratone ne correranno ancora cento, mille, un milione, ma nessuna sarà mai più come questa. Vincitore come Spyridon Louis, pastore di Maroussi, 108 anni fa. Anche Spyridon era entrato da solo in questo stadio. Adesso la pista è nera, asfaltata, allora era di carbonella e gli ultimi pesanti passi di Spyridon alzavano polvere. Stefano no, La sua falcata è leggera, potente, sicura. Non c'è neppure bisogno di voltarsi per vedere se qualcuno è riuscito a seguire il suo ritmo infernale, un ritmo costruito in anni di fatica, di vittorie, di delusioni, di infortuni.

Niente è da buttare in un giorno come questo. Un giorno che basta da solo a rendere leggendaria una carriera. Vincitore ad Atene, nella maratona olimpica. Nessun avversario, nessun primato potrà mai cancellare questa impresa. Rimane scolpito nella pietra della storia, quella che rende giustizia, che pareggia il destino, che premia chi ha saputo lavorare per costruire un sogno.

Chissà cosa ha pensato Baldini in quella lunga, interminabile curva a sinistra che immette sull'asfalto del Panathinaiko. Se a quella sera, quando aveva 10 anni, in cui si nasose nella machina dei fratelli maggiori Marco e Giuseppe per andare a correre al campo. Lui giocava al pallone, ma c'era un fascino in quella corsa fine a se stessa che il pallone non poteva avere. E poi le non competitive, lui bimbetto magrolino che batteva i grandi. Corri Stefano, corri verso il tuo sogno.

E poi la pista, le prime gare vere. L'era più dura, come le finali dei Giuochi della Gioventù del 1985 in cui non riuscì neppure ad approdare alla finale dei 2000 metri. Ma il suo sogno era più grande, lo Stadio dei Marmi di Roma non poteva contenerlo. Forse quel sogno così grande era riuscito a vederlo anche Emilio Benati, il suo primo allenatore. Stefano correva, spingeva, gioiva. Sì, pochi ragazzi provavano quel piacere nella corsa,era una gioia allenarlo. Nell'88, a 17 anni, quando le distanze lunghe della pista erano sotto il segno di Totò Antibo, Stefano correva i 5000 in 14:41.2. Già, nel 1988, quando Stefano si svegliò all'alba per vedere il trionfo di Gelindo Bordin ai Giochi di Seoul. Una cavalcata esaltante, l'ultimo avversario, il gibutiana Salah, staccato di forza. Gelindo quel giorno non aveva l'orologio al polso, seguiva il ritmo del suo cuore. E in quell'alba si accese il contatto, anche il cuore di Stefano vibrò, quella parola, maratona, entrò nella sua anima come una saetta. Ma non fece danni, si accucciò cheta in un angolo di quell'anima pulita pronta a fiammeggiare ancora.

Chissà se Stefano ha ripensato a quei giri di una pista sempre uguali, se li ha contati. Un milione? Mah. Per il suo sogno era sempre là, davanti, a correre su quella stessa pista come una lepre imprendibile. Corri, Stefano, corri.

Sei titoli itliani dei 10000, un 18esimo posto sulla stessa distanza ai Giochi di Atlanta. Sì, nel 1996, forse la pista era diventata troppo corta per il suo sogno troppo grande. Chissà se Baldini ha ripensato a quella sua prima maratona dell'ottobre 1995 a Venezia, quei ponti assassini della parte finale, quel sesto posto che gli diceva che poteva diventare un maratoneta. Come può un sogno farti vivere con il cuore in gola per due ore? Però, che fascino. C'era qualcosa di diverso in fondo a quella fatica nuova. Anche concludere, arrivare in fondo, era una gioia. Chissà se Stefano ha ripensato alle parole di Gigliotti:"Tu sarai un maratoneta, un grande maratoneta, ma ci devi credere".

Facile a dirsi sul viale del trionfo prima di entrare nel Panathinaiko. Ma allora? In quel '96 aveva riprovato a New York ma si era ritirato, aveva riprovato a Londra nell'aprile '97 dopo il primo inverno vero di lavoro da maratoneta ed era stato beffato dal protoghese Pinto. Forse anche qui, come in pista, mancava qualcosa? Il dubbio, un brutto compagno di viaggio. La prima vittoria arrivata agli Europei di Budapest nel '98. Grande gara, ma senza gli africani. Li avrebbe trovati due anni dopo ai Giochi di Sydney. Ecco dove andava a parare il grande sogno.

Chissà se Stefano, abbagliato dai riflettori dello stadio Panathinaiko, ha ripensato a quel dramma. Due anni di lavoro durissimo, la convinzione di poter competere con i migliori maratoneti del mondo sino a quel dolorino subdolo all'anca un giorno in allenamento, una settimana prima di partire per l'Australia. Un dolorino, quanti ne avrà avuti Stefano? Ma più ci correva sopra e più faceva male, sino a fermarlo. Che dramma quel giorno. A 29 anni sapeva che partiva nella maratona più importante della sua vita con un conto alla rovescia dentro, forse più corto del tempo necessario per percorrere 42 chilometri e 195 metri: il dolore all'anca. Inesorabile. Ecco Stefano fermo a bordo della stada, eccolo piangere.

Per papà Tonino, che anche quando la grandine distruggeva il raccolto a Castenuovo di Sotto, non mollava. Abbassava la testa, si rimboccava le maniche e ripartiva da capo. Certo si poteva risorgere, ma per un'altra Olimpiade bisognava aspettare altri 4 anni.

Però il destino, come vede lontano...Vincere a Sydney non sarebbe stata la tesa cosa di Atene, Atene, sulla pista di Spyridon Louis. Era scritto.

Ecco i riflettori, la folla del Panathinaiko. Certo che solo quattro mesi prima Stefano non avrebbe creduto di poter battere Tergat e Gharib. Alla maratona di Londra Rutto e Korir gli erano scappati via. Imprendibili. E la progressione di Gharib lo scorso anno ai mondiali di Parigi gli aveva frustato l'anima. "Sarò mai capace io di seminarli?" si chiedava Baldini. Ma venti minuti prima di entrare in quello stadio Panathinaiko che lo abbracciava, Stefano li ha seminati, distrutti. Quella salita sino alla porta di Atene lo ha aiutato, quella pendenza subdola che poteva essere interpretata solo con l'esperienza accumulata in 23 anni di corsa. Ventitrè anni, centomila chilometri e passa, due volte e mezzo il giro dell'Equatore. Di corsa.

Kefleghizi, Lima, niente e nessuno poteva fermarlo. Il grande sogno là davanti, sotto la luce abbagliante del Panathinaiko, nell'urlo della folla. No, nulla di questi 23 anni è stato sprecato, tutto in fila, ordinato, una lunga scala progettata dal destino sino qui. Ad Atene.