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Maurizio Damilano: avevo 23 anni, era il 25 luglio 1980 , Mosca brillava con le sue cupole dorate PDF Print E-mail

Ci fa un immenso piacere che Maurizio Damilano abbia accettato la nostra proposta di scrivere una manciata di righe sulla sua vittoria olimpica del 1980 dentro lo Stadio Luzhniki, lo stesso, ovviamente riadattato, che sta ospitando i 14esimi Campionati del mondo di atletica. Maurizio è stato uno dei grandi della nostra atletica, da parecchi anni è stimato presidente della Commissione IAAF per la marcia. Ha scritto proprio nel giorno in cui è arrivata la medaglia d'argento nella maratona di una sua conterranea, Valerio Straneo, coraggiosa (o incosciente, come ci ha detto lei stessa sorridendo mentre la felicitavamo) protagonista di una gara difficilissima. Grazie, Maurizio.

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Mosca, con le sue cupole dorate, il rosso mattone del Cremlino, il fiume Moscova che la percorre placida lasciando un senso di pace e tranquillità. Sono queste le prime immagini che mi accolgono a Mosca tornando sui luoghi che mi videro conquistare l’alloro più importante della mia carriera sportiva: la medaglia d’oro olimpica.
Emozioni che tornano alla mente nitide come se tutto si fosse svolto qualche giorno prima. Emozioni che si fanno tensione nel vedere la mia conterranea Valeria Straneo percorrere il lungo Moscova, la stessa strada che ospitò le prove di marcia nel 1980, e situata proprio fuori dal parco dello stadio moscovita, ancora in lotta per la vittoria in maratona e che concluderà, all’interno dello stadio dove io trionfai, con un entusiastico secondo posto e medaglia d’argento.
Non è facile ancora oggi raccontare quei momenti. Attimi intensi e felici seppure rigati dal sudore della fatica di 20 impegnativi chilometri di marcia.
Ricordo il grande Pino Dordoni ai bordi del percorso incitarmi e dirmi che potevo farcela, non dovevo mollare. Lo ricordo al termine della gara emozionato forse più di me, ma come sempre capace di sdrammatizzare le situazioni e abbracciarmi dicendomi: “Te l’avevo detto, con una giornata come questa russi e tedeschi est erano battuti in partenza”.
Ho fatto altre 3 Olimpiadi dopo quella di Mosca. Ho vinto altre due medaglie di bronzo e chiuso con un quarto posto amaro. Amaro in quanto in quella stagione tutto lasciava presagire che potessi ripetere il successo di Mosca. Ho però sempre saputo che nello sport a volte si vince inaspettatamente e a volte si perde quando le attese sono ben diverse.
La gara di Mosca fu una gara strana. Tensioni forti si sentivano sin dalla vigilia. I messicani, che contavano sul grande favorito Bautista, lasciavano intravedere la difficoltà di una forma non eccellente, ma soprattutto temevano il giudizio tecnico che aveva reso complessa la stagione al campione olimpico di Montreal e gli aveva riservato l’amarezza della prima squalifica della sua carriera (la seconda sarà proprio a Mosca), guarda caso là nel paese del suo maestro, la Polonia del prof. Jerzy Hausleber.
Bautista adottò una tattica insolita per lui. Non il solito pronti e via, chi vuole mi segua, ma un attendismo per lui non comune. Io speravo, a dire il vero, nel solito Bautista, ma mi adattai alla gara. Via via che i chilometri passavano il gruppo si assottigliava. Al sedicesimo chilometro rimanemmo in 3. Bautista attacca. Sorprende sia me che il sovietico Solomin. Guadagna presto 50/70 metri, ma improvvisamente, mentre avevo perso contatto da Solomin e lo seguivo a 20/30 metri di distanza, scorgo Bautista fermo ai lati della strada attorniato di gente. Squalificato, penso immediatamente. Allora dacci dentro mi dico. Solomin è battibile. Ha solo qualche metro di vantaggio.
Ricordo ancora adesso, sentendolo nelle orecchie, l’urlo smorzato del pubblico russo al mio ingresso in pista. Attendevano un loro connazionale, non certo un giovane italiano, ma una giuria molto severa lo aveva invece squalificato verso il diciottesimo chilometro, pochi metri davanti a me, proprio mentre lo stavo riprendendo. Forse fu il tentativo di non farsi raggiungere sapendo di marciare sulle strade di casa a portarlo verso la squalifica.
Ricordo l’effetto del pannello video dello stadio che mi diede la sensazione di avere alle spalle l’atleta che mi seguiva. In effetti avevo un minuto di vantaggio, ma quando lo inquadrarono all’ingresso del tunnel dello stadio mi sembrò di averlo immediatamente dietro. Accelerai. Mi voltai. Mi resi conto che dietro non c’era nessuno ed allora una leggerezza incredibile mi sospinse negli ultimo 80 metri per tagliare il traguardo con il record olimpico e sommerso dal confuso entusiasmo che ogni volta accoglie chi per primo taglia quel filo di lana (nell’atletica moderna ormai immaginario). Lo stesso che tagliò Ugo Frigerio al grido di “Viva l’Italia”. Lo stesso che tagliò Pino Dordoni dopo, come racconta la leggenda, non aver dimenticato di rimettere a posto i capelli con un pettine passatogli da un dirigente. Lo stesso che 16 anni prima tagliò Abdon Pamich, anzi strappo con violenza quasi a voler spezzare un sortilegio che non gli aveva permesso di conquistare quel traguardo già prima.
Avevo 23 anni. Era il 25 Luglio 1980 e Mosca per me brillava attraverso le sue cupole d’oro.