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Io la penso così........L'opinione di Giorgio Reineri PDF Print E-mail

Giorgio Reineri, per anni inviato speciale del "il Giorno" e in seguito direttore della Comunicazione della Federazione internazionale di atletica (IAAF), socio della nostra ASAI fin dalla fondazione, ha scritto per noi una "opinione" sui Campionati del mondo in corso a Mosca. Ci auguriamo la prima di un serie fino alla fine dei Campionati.

La 14esima edizione degli IAAF World Championships ha rischiato al suo esordio, sabato, d’impantanarsi nella calura appicicosa della piana moscovita. Il clima russo è da tempo immemore un fattore capace di cambiare i destini della storia. E se il gelo contribuì alla sconfitta delle armate di Napoleone e Hitler, asfalto arroventato e aria soffocante hanno, in questa ben più modesta occasione, favorito l’imprevisto disastro, in maratona, delle altrimenti instancabili pedonesse etiopi.
Non tutto il male, tuttavia, viene per nuocere. Soprattutto all’Italia se schiera una lottatrice indomita come Valeria Straneo e una dottoressa in medicina, prudente e saggia come la sua professione richiede, quale la genovese Emma Quaglia. Esse sono state seconda e sesta, cioè il meglio che sia mai stato fatto, in competizione globale, da due maratonete azzurre.
Valeria Straneo è una donna di 37 anni. Tiene famiglia e una forza di volontà che è l’indispensabile motore dei corridori di lunga lena. In molti anni mai avevamo veduto una nostra connazionale battersi per due ore, venticinque minuti e cinquantotto secondi con tanta determinazione, tanto ardore, tanto inesausto entusiasmo. Eppure di campionesse azzurre ce ne erano passate davanti agli occhi: da Paola Pigni a Laura Fogli; da Gabriella Dorio a Ornella Ferrara; da Agnese Possamai a Maria Curatolo. Tutte ci avevano esaltato, fin quasi alla commozione. Nessuna, però, ci aveva toccato il cuore come è riuscita a fare Valeria.
Prendete il suo stile di corsa. Quello slanciare il busto in avanti, quasi a proiettare l’anima al di là della fatica. I ginocchi tenuti bassi, radenti l’asfalto; la spinta poderosa, con piena distensione delle gambe: due molle capaci di dispensare, e racimolare, energia per tutti i km. 42,195 di gara. Certo, al suo cospetto Edna Kiplagat faceva la figura della gigantessa: i femori lunghi quasi quanto Valeria è alta, l’elegante alternarsi del passo, il dondolio delle braccia, la perfezione stilistica che era una goduria della vista. Edna Kiplagat è una magnifica maratoneta: lo testimoniano le statistiche, che la piazzano nell’aristocrazia della specialità: con un primato personale inferiore alle due ore e venti, che poteva fare Edna?
Poteva soltanto vincere, e difatti ha vinto. Ma ha sofferto, dovendo fare ricorso alla tattica piuttosto che alla superiorità in talento. La corsa, difatti, l’aveva fatta, s  no a poco oltre il quarantesimo chilometro, Valeria. Lei era stata la locomotiva; lei aveva costretto alla resa le etiopi; lei s’era messa alle spalle le giapponesi, obbligandole all’inseguimento; lei aveva fiaccato Valentine Jepkorir Kipketer, keniana ventenne di buone speranze, consigliandole il ritiro come alternativa all’asfissia.
Non era asfissiata, pero’, Edna Kiplagat. Con la saggezza che s’accumula con gli anni – vicina ai trentaquattro, ormai – aveva rinunciato a sfidare Valeria sul terreno della pura endurance: rischio troppo alto con l’umido che s’appicicava al corpo raddoppiando la sudorazione e i polmoni che bruciavano più dell’asfalto per averne troppo a lungo respirato i bollenti vapori. La keniana sapeva quale era l’arma da custodire, evitando di farsela spuntare dall’italiana: il cambio di ritmo, la capacità di innestare una marcia superiore con la pochissima benzina rimasta nei muscoli, e le minuscole gocce di ossigeno che la calura non era riuscita a prosciugare.
Così accadeva. Così Kiplagat diventava campionessa del mondo e Straneo sua prima ancella. La giapponese Fukushi completava il podio: Africa, Europa, Asia, in rappresentanza di tre diverse culture, tre differenti mondi, tre lontanissime storie. Questa è l’atletica, questa è la maratona. Questa è la storia della fatica, dai giorni degli emerodromi a quelli di oggi.
Qualcosa di simile alla maratona femminile sarabbe accaduto, sabato sera, nello stadio olimpico di Mosca durante la corsa dei 10mila. Vapori di calore salivano dal tartan a massacrare la respirazione dei pedoni, in pista. Agli spettatori sudavano le chiappe, agli atleti fumavano i muscoli. Persino quelli di Mohamed Farah, che è lo Zatopek della modernità. E come Zatopek faticò a Helsinki ’52, così Farah ha sofferto, sabato, per imporre il suo sprint, altrimenti devastante, a Ibrahim Jeilan, etiope. Ma attenzione: anche in questa gara il clima uccideva i favoriti. Dejen Gebremeskel, che in stagione aveva gia’ corso al limite dei 26’50’’, finiva mortificato, sedicesimo, in 27’51’’88, a mezzo giro dall’inglese e dal connazionale.
Una domanda, magari provocatoria, è tuttavia d’obbligo. Se poco poteva esser fatto per diminuire le pene dei diecimilisti, molto si sarebbe dovuto, invece, per le maratonete. Perche’ obbligarle alla competizione alle due del pomeriggio di un dieci di agosto? Cosa è, se non un attentato alla salute? Valeria Straneo, e pure la dottoressa Quaglia, hanno frustrato l’attentato, ma questo non toglie che altre ne siano state innocenti vittime.