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L'oro della medaglia olimpica non sbiadisce mai: Ivano Brugnetti Stampa

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Due copertine dedicate al successo olimpico di Ivano Brugnetti: a sinistra quella del secondo volume dell'Annuario edito dalla Federazione italiana, datato 2005 ma relativo all'anno 2004. La seconda da una copertina della rivista della stessa federazione: Brugnetti bacia il suolo dopo l'arrivo ad Atene, gesto mistico del Papa Giovanni Paolo II che divenne una «moda» fra gli atleti

Era il 20 agosto 2004...La settima medaglia olimpica di metallo dorato conquistata da un atleta italiano arricchisce il Pantheon sportivo della Città di Milano. Ugo Frigerio era milanese, Ivano Brugnetti pure, di Bresso. Se contiamo medaglie meno preziose come lega metallica, dobbiamo aggiungere il bronzo di Fernando Altimani. Altri milanesi che ci hanno provato, due eclettici: Donato Pavesi e Raffaello Ducceschi, di Sesto San Giovanni. Tutti meneghini. E sai quanti altri ancora a scorrere le liste messe in fila da chi ha passione e pazienza. Quel lunedì 20 agosto  Atene era una fornace, era il primo giorno di gare nello Stadio uscito dalla progettualità dell'archistar Santiago Calatrava (andateci adesso a vedere «le nuove macerie di Atene»). Chi aveva avuto la fortuna era andato il sabato 18 in trasferta a Olympia, al Sacro Recinto, per le due gare di lancio del peso, che della sacralità del luogo se ne infischiarono presentando atleti che non si alimentavano solo a pane e Nutella. La storia di Brugnetti ce la racconta Piero Mei, all'epoca inviato del quotidiano romano «Il Messaggero», il quale scrisse un ritratto del neo-campione olimpico per la rivista «Atletica», numero luglio - agosto, pagine 18 - 21. Di quella gara, un ricordo incancellabile: la determinazione di Brugnetti dal primo all'ultimo metro di quei bollenti 20 chilometri, sempre davanti, o solo o comunque con i primi, e poi la schermaglia a tre, lui, l'australiano Deakes e lo spagnolo «Paquillo» Fernández, altro che affonderà, dopo qualche anno, nelle sabbie mobilissime dell'illegalità e della bugia. Una noticina invece che ha a che fare con la marcia senza regole fisse della fortuna: i genitori di Deakes avevano vinto, qualche mese prima, la bella somma di un milione di dollari australiani (oltre 600 mila Euro ai valori odierni) giocando cinque centesimi ad una poker machine.

 

 

Una marcia trionfale lunga quanto l'Equatore

di Piero Mei

Ivano è innamorato. E, siccome è un bravo ragazzo, anche quando è sfancato da venti chilometri fatti di marcia, ha un pensiero gentile:"Questa vittoria - dice - la dedico alla mamma della mia ragazza, che sta molto male". La ragazza è quella di sempre, che Ivano sposerà in primavera e il secondo pensiero è anche quello normale. Con i soldi dei premi finirà i lavori per la casa che lo aspetta insieme con la promessa sposa.

È questa la "cifra" di Ivano Brugnetti: la normalità. Eppure non deve apparire un tipo normale a quei balordi o sperduti che al Parco Nord lo vedono nella bruma d'ogni mattina non camminare né correre, ma marciare, che dovrà fare loro l'effetto di quei tipi strani che inseguono un sogno, un pensiero, la strada, il sentiero è uguale. Forse un cane gli abbaia dietro, qualche volta, magari Ivano gli allunga una carezza, chissà.

Ne ha macinati di chilometri e di pensieri, prima di questi venti olimpici di Atene, e prima di quella dedica e di quel desiderio d'investire in un nuovo sogno, questa volta a due. Ne ha marciati quasi seimila l'anno, che in sette anni fanno il giro intero dell'Equatore con un pezzetto d'avanzo, forse quello per tornare a casa. Ne ha marciati, prima seguendo il fratello maggiore, dai vieni con me a farti due passi, perchè magari tutto comincia così, per caso, magari non puoi stare in casa da solo, perchè non ti ci lasciano, e magari ti incuriosisce capire perchè quel fratello grande e grosso, che forse è un mito per la tua età, si diverta così. A pensare, a faticare.

Certo, sotto il bellissimo tetto costruito da uno dei più celebri architetti-star moderni, Calatrava, per lo stadio di Atene, la vita deve aver ripreso di colpo il suo senso di marcia per Ivano Brugnetti: aveva l'ulivo in testa e l'oro al collo, giacchè era diventato il campione olimpico. il primo in quello stadio. Era tutto molto diverso da come,invece, era diventato campione del mondo nella cinquanta chilometri di marcia.

Quella volta né inni né oro, ché sul podio era stato d'argento; ma era lì che sonnecchiava quasi quando era squillato il telefono, più di due anni dopo la faticata:"Ehi, guarda che il russo l'hanno squalificato e il campione dl mondo sei tu". Brugnetti l'aveva sentito dire che poteva andare a finire così, ma ormai non ci pensava più, non ci faceva  più caso ad essere d'oro o d'argento nel firmamento della marcia. Anzi, della marcia stessa aveva una specie di nausea, ché cinquanta chilometri ormai erano diventati troppi a faticarli tutti e pensarli tutti metro dopo metro, piuttosto che non chilometro dopo chilometro. Va bene, sarò pure campione del mondo, avrà pensatogirandosi dall'altra parte del letto, ma in fondo la faccenda non gli cambiava la vita.

Se lo sentica dire spesso: com'è che non ce la fai più? Forse a poco più di vent'anni quel gran giorno di Siviglia era arrivato troppo presto. Il successo qualche volta ti brucia, che puoi conquistare di più se hai conquistato già il mondo? Forse ci vorrebbe una marcia sulla luna, arrampicarcisi. Ma quello non è possibile a nessun umano, nemmeno a Ivano Brugnetti. E allora, per non rimuginare certi pesnieri che alla fine potevano pure metterti l'angoscia come te la mette la marcia quando sei stanco e sfinito, ma sai che devi finire, puoi morirci sull'asfalto ma mica arrenderti, s'è dedicato ai motori, alle macchine, a saper tutto d'ogni congegno, anche quello più infinitesimale, quasi che il pensiero volesse marciare all'interno di quei meccanismi come avevano fatto le gambe sulle strade caldissime di Siviglia, e adesso non reggevano più oltre un certo limite di chilometri. Non era questione di gambe, ma di testa.

Per questa ha fatto quello che nessun marciatore fa: perchè se vai avanti con gli anni, allunghi la distanza, quasi che la gara stessa dovesse aumentare i propri numeri come fa il tuo corpo. L'uomo è esplosivo all'inizio della sua vita, in ogni campo, poi non esplode più, ragiona. Ma Brugnetti ha fatto il contario. Proviamo con la venti, che forse è meglio, e magari fino a quel limite posso farcela ancora.

Ce l'ha fatta, lentamente come la marcia vuole, che come dice qualcuno:"è un modo di correre per andare più piano". Ed eccolo olimpionico, eccolo confessare che "è finito un incubo", dopo essere stato sempre avanti nella gara ed aver avuto la certezza  della vittoria, raccontava, a un chilometro dalla fine, quando ha visto che lo spagnolo Fernandéz, attaccato, aveva qualche difficoltà. Lui no. Sapeva, sentiva, che cinque anni dopo Siviglia si poteva di nuovo assaporare il successo, anche più di allora, e non per largento o l'oro, che già fa una gran differenza perchè se vinci bene, se sei secondo hai perso; ma anche perchè qui erano le Olimpiadi, che valgono sempre più dei Mondiali, perchè sei sotto gli occhi davvero di tutto il mondo dello sport e non solo del tuo. Ma forse a lui interessavano pochi di questi sguardi. La ragazza, la famiglia, qualche amico di quelli che non ti lasciano quando la tua marcia non è trionfale.

Baciare la terra, prendere la bandiera: a volte ha l'aria di un rituale, Ivano non è da rituale. Forse avrebbe voluto farlo a Siviglia, quando il diritto sarebbe stato suo. Forse negli anni diciamo così bui avrà pensato mille volte che se non l'aveva fatto quella volta non l'avrebbe fatto mai più. Eppure i marciatori oltre al segreto del passo cui sono tecnicamente obbligati, hanno quello del pensiero.

C'è chi voleva togliere la marcia dal programma olimpico, perchè la marcia è fatica, è sudore, è sport di poveracci, meglio aprire i Giochi ai miliardari del golf  ed ai loro sponsor. Per fortuna non gli hanno dato retta, e un giubileo o quasi dopo il sorriso di Maurizio Damilano a Mosca si sono viste le lacrime di Ivano Brugnetti ad Atene. La vittoria ha volti diversi.