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L'oro della medaglia olimpica non sbiadisce mai: Ugo Frigerio (2) PDF Print E-mail

Era il 18 agosto 1920... Era il 21 agosto 1920...Come seconda parte delle vicende olimpiche di Ugo Frigerio vi proponiamo oggi un gustosissimo articolo che Gianni Brera scrisse, il 22 luglio 1984, alla vigilia dei Giochi Olimpici di Los Angeles. Seguì tre edizioni dei Giochi Olimpici estivi (1984 - 1988 - 1992) nel periodo in cui ha lavorato a «la Repubblica». Questo «pezzo» la letto nell'ottica della presentazione dell'evento olimpico. Abbiamo riprodotto la prima parte in cui scrive di Frigerio, con un brio, una vena ironica, che lo rendono piacevole sempre. C'è poi quella frase dedicata a Pino Dordoni, di cui alcuni di noi sono intransigenti custodi del ricordo del campione e dell'uomo, che non ci stancheremo mai di leggere.

Se un nostro socio ci metterà a disposizione il testo, pubblicheremo, forse, una terza parte dedicata a Frigerio, tutta dedicata ai suoi due successi del 1920. Questi giorni d'agosto, in anni diversi, sono stati generosi di metallo aureo per l'atletica italiana: oltre alle giornate di Frigerio, ricordiamo il 20 agosto 1984 Ivano Brugnetti ad Atene, 22 agosto 2008 Alex Schwazer a Pechino. Piano piano, parleremo anche di loro. Intanto godetevi Brera.

 

Ordine del Duce: dovete vincere cavalier Frigerio

di Gianni Brera

"Milanese di solido ceppo brianzolo, figlio di verduratto, tipografo principiante, per Dio sa quale sfizio dell'orgoglio fisico Ugo Frigerio prese a ciabattare secondo le norme della marcia, che stando alla eufemistica definizione ufficiale è «una successione di passi, mentre la corsa è una successione di salti». Purtroppo, la marcia è nella realtà un modo innaturale assai di correre a ginocchia bloccate. Per compensare questa smaccata incongruenza  dinamica, il povero cavaliere di San Francesco si contorce, sculetta e sgomita facendo normalmente un brutto vedere. In vita mia, un solo marciatore ho ammirato per superiore eleganza di stile: si chiamava e chiama Pino Dordoni. L'impreparazione dei tenici italiani gli fece malamente perdere una Olimpiade a Londra nel '48: venne sfiorato (n.d.r., incomprensibile questo termine in questo contesto, forse un errore di stampa? forse sta per schierato?) sui dicimila metri e non potè reggere la sistematica e spudorata corsa degli avversari. Avesse disputato la cinquanta chilometri, preparandosi per tempo a dovere, avrebbe mortificato tutti come fece a Bruxelles nel '50 (Campionai europei) e all'Olimpiade di Helsinki nel 1952. Ero anch'io all'arena quando Pino Dordoni faceva le ultime sgambate in attesa della partenza per Londra. Lo controllava dai margini il dottor Giorgio Oberweger, troppo intellingente per prendere sul serio anche un puzzapiedi a ginocchia bloccate. Vicino a me era Ugo Frigerio, che la felice ignoranza di Emilio Colombo aveva chiamato un giorno «il fanciullio di Anversa» (ma - ironizzava lui - se andavi giamò a casott!). Ugo vendeva formaggi scondo la miglior tradizione lombarda e prestava gratuitamente all'atletica i lumi della sua competenza: vide Pino Dordoni e subito esclamò:«In mano mia, vincerebbe i cinquanta chilometri!». Sentendolo, Oberweger si offese fieramente e Pino Dordoni non riuscì a nascondere il proprio sollievo...I fatti diedero piena ragione a Ugo Frigerio.

"Quando Venne chiamato il fanciullo di Anversa, nessuno pensava lontanamente alle sue possibilità olimpiche. Corricchiava sculettando secondo passabile decenza. Francesi e inglesi si squalificarono a vicenda: il ragazzino milanese restò senza avversari e venne proclamato campione dei tre e dei dieci chilometri. Poi, ci rifece gloriossissimamente sui dieci chilometri a Parigi nel '24, e incominciò a vivere secondo dilettantismo di Stato, che riparava all'indigenza di fondo con il poco denaro per la bistecca. Il cavalier Ugo seguitò a scarpinare come esigeva l'atletica popolare e nel 1932 venne addirittura selezionato per la cinquanta chilometri di Los Angeles. Non che andasse forte o che avesse conservato particolare fonda atletico: ma serviva il suo nome, sempre famoso, per trarre tatticamente in inganno gli avversari: sarebbe dovuto partire subito alla morte e portare a scoppiatura certa i favoriti. Allora, dalle retrovie, sarebbero comodamente emersi i due sculettatori più giovani e nel nome del duce avrebbero trionfato...

"Ugo Figerio prese immediatamente il largo a ritmo suicida e lo seguirono soltanto i più forti: i due poveri cristi in azzurro scoppiarono anche a distanza dei primi e si tolsero mestamente ai margini. L'accompagnatore in bicicletta pedalò sconfortato a riprendere Ugo, ormai in seconda posizione, e gli disse:«Cavaliere, le sorti della marcia italiana sono nelle sue mani (dire nei suoi calli sarebbe eccessivo)». Ugo era d'accordo che, una volta lanciata la gara su quei ritmi impossibili, si sarebbe ritirato in gloria: alla notizia che i due più giovani e boriosi sopracciò si erano stravaccati ai margini ebbe una smorfia amara: pensò alla famiglia, al duce (doveva!) e finì terzo con i piedi in fiamme. Le durarono le fiacche (o bolle o vesiiche) per mesi: il fanciullo di Anversa aveva scontatao i facili allori dei 18 anni con lo stoicismo del padre di famiglia".