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L'oro della medaglia olimpica non sbiadisce mai: Alex Schwazer PDF Print E-mail

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La copertina della rivista «Atletica» celebrò così il successo di Alex Schwazer; nell'altra immagine l'abbraccio fra l'atleta e colui che l'aveva guidato al successo: Sandro Damilano (le foto sono di Giancarlo Colombo per Omega / FIDAL)

Era il 22 agosto 2008...Scrisse Franco Arese, allora presidente della Federatletica italiana, nell'editoriale che apriva il numero settembre - ottobre della rivista «Atletica», quello che faceva i consuntivi dei Giochi Olimpici di Beijing 2008:"...ci riempiono d'orgoglio e di gioia le due medaglie della marcia, lo spledido oro di Alex Schwazer e l'altrettanto splendido bronzo di Elisa Rigaudo...". Giocando sulle parole, il campione europeo di Helsinki 1971, volle iniettare una dose di fiducia nell'ambiente atletico nazionale con un "...potremmo dire che siamo in marcia...". La marcia aveva salvato, ancora una volta, il bilancio italiano in una grande manifestazione, quelle furono le uniche due medaglie nostre. Per il successo del giovanotto altoatesino si sprecarono aggettivi, iperboli, si diede fondo a tutto il repertorio...pindarico! In effetti, fu una gran bella vittoria, una gara da manuale, 50 chilometri da primato olimpico. Oro olimpico fu, oro olimpico resta. Noi abbiamo deciso di riproporre quanto scrisse Fabio Monti, sulla rivista federale. Uno scritto equilibrato, privo di accenti omerici esagerati, ma ancorato saldamente al presente - di allora - e al futuro - che non è ancora passato, ma incombe. C'è un passaggio nell'ultimo capoverso che suona come la quarta tromba dell'Apocalisse, quella che oscura il sole e la luna. Scrisse Fabio:"Basta che le sirene post-olimpiche non lo rovinino e che a novembre tutti ritorni come prima". No, non tornò tutto come prima. Anzi...

"O quam cito transit gloria mundi". Nonostante gli sforzi titanici e congiunti di una serie di personaggi che, per motivi diversi, hanno voluto ergersi a paladini di non si è mai capito bene cosa, resta inoppugnabile il fatto che l'uomo e l'atleta hanno ascoltato le sirene post-olimpiche, vanificando, vada come vada, una immagine che avremmo tutti voluto vedere in tutto il suo fulgore. Non è stato così, non sarà mai più così. Finora, ignobilmente, hanno pagato solamente delle persone per bene, che non hanno mai imbrogliato, non hanno mai mentito, non hanno mai vaneggiato di trame della mafia russa, che hanno sempre aperto le porte di casa loro alle forze dell'ordine senza farsi negare e mettendo nei guai i familiari. Sono tre persone che colpe non hanno, non ne hanno mai avute, tre persone che hanno sempre fatto il loro mestiere con inattaccabile rettitudine. Si chiamano Giuseppe Fischetto, Pierluigi Fiorella, Rita Bottiglieri. I loro nomi li ricorderemo sempre con profonda stima, quelli di tutti gli altri coinvolti a vario titolo faremo in modo di dimenticarceli. Il che non potranno fare Beppe, Pierluigi e Rita.

 

Il cammino del trionfo

di Fabio Monti

Lacrime di passione dentro il nido di Pechino per Alex Schwazer, 24 anni da compiere il 26 dicembre, altoatesino di Calice, frazione di Racines, sopra Vipiteno, sulla strada che porta al passo di Gioco, nuovo signore della marcia, la terra promessa dell'Italia, quella che ha sempre un frutto da offrire, anche nei momenti più difficili. Lo dicono: 17 medaglie azzurre sulle 59 vinte in atletica ai Giochi Olimpici vengono da lì. Erano 44 anni che si aspettava una medaglia così, sulla 50 km, la gara più lunga, quella che non consente di sbagliare nulla e che non finisce mai. Alex come Abdon, Alex come Pamich, altro uomo di frontiera, altro oro spuntato all'alba (italiana) dall'Oriente, il solo di Pechino invece della pioggia di Tokio, ma identico prodotto. Senza dimenticare Pino Dordoni, il campione olimpico di Helsinki '52, l'uomo che ha marciato dalla terra alla luna per costruire le sue vittorie. E gli altri ori: Ugo Frigerio (addirittura tre) e Maurizio Damilano, due monumenti carichi di medaglie, Ivano Brugnetti, l'uomo del blitz di Atene. E nemmeno Elisabetta Perrone, fermata sulla strada dell'oro otto anni fa da una giuria in cerca di assurde vendette, quando era solissima.

La medaglia di Schwazer è stata straordinaria, perchè prenotata in anticipo e perchè riassume il senso dell'atletica e indica la strada da percorrere per essere grandi. L'immenso talento di Alex è stata la pietra angolare sulla quale è stato costruito questo, che è davvero un trionfo: senza la sua classe, l'oro non sarebbe mai arrivato. Però il capolavoro è stata la costruzione dell'edificio, che ha permesso di arrivare in cima al mondo. La prima grande intuizione è stata quella di Vittorio Visini, pronto a recuperare un atleta che sembrava aver preso altre strade sportive e riportarlo alle origini e dove sarebbe esploso, lasciando perdere hockey e ciclismo. La seconda grande idea è stata quella di consegnarlo a Sandro Damilano, che ha saputo trasformare una grande promessa in un super-campione, lavorando con lui tutti i giorni, sulle strade intorno a Saluzzo o in quota e mettendo insieme quantità del lavoro e qualità del gesto, perchè la marcia di Schwazer è prima di tutto eccellenza tecnica. La terza leva per sollevare il mondo è stata la forza di volontà, cioè la capacità di sacrificarsi, di allenarsi, di soffrire di Alex, uno nato per marciare, ma uno che ha sempre avuto il coraggio di pensare in grande, fin da quando stupì tutti sulle strade di Helsinki, tre anni fa, con il bronzo mondiale. Uno capace di dire al presidente Arese che era andato a trovarlo a Saluzzo:«Vado a Pechino per vincere l'oro».

Nella storia dell'oro di Alex c'è davvero tutto: il recupero di un atleta, in un Paese che disperde molte delle sue migliori promesse; la grandezza di un tecnico come Sandro Damilano, che dopo 36 anni da predicatore della marcia e una valanga di medaglie euromondiali (44) meriterebbe un monumento; il rigore da professionista vero di Alex, perchè si fa in fretta a parlare, ma ci vuol un bel coraggio per marciare per 8.000 chilometri in una stagione, come se fosse andato da Roma a Pechino a piedi; una programmazione senza sbavature; l'organizzazione perfetta di un centro come quello del cammino di Saluzzo, che è davvero un gioiello e dove tutto funziona; l'appoggio di una federazione che non ha mai fatto mancare niente a chi ha dimostrato di meritarselo. Senza tecnici preparati, senza voglia di allenarsi, senza organizzazione, senza i fatti non si va da nessuna parte. Se la base è questa, le medaglie arrivano, perchè l'atletica è spietata, ma sa anche essere riconoscente con chi rispetta le sue regole e ha rispetto del proprio talento.

Per questo, quella dell'oro di Schwazer è sembrata persino una medaglia in discesa; per questo lui ha confessato che per «trenta chilometri è come se avessi assistito alla gara di marcia sul divano di casa mia». Del resto che Schwazer avrebbe vinto l'oro lo si era intuito già a Osaka, il 31 agosto 2007, quel bronzo pieno di lacrime del Mondiale («una medaglia vinta per me, un oro perduto per lui», il commento di Damilano): non perchè avesse sbagliato gara, ma perchè uno che arriva in quelle condizioni di freschezza non può che pensare in grande. la certezza che, salvo terremoti, Schwazer sarebbe arrivato al titolo olimpico la si era avuta a Cheboksary, l'11 mggio, la domenica di Coppa del mondo di marcia in riva al Volga: per batterlo a cento giorni dall'Olimpiade, un russo, Nizhegorodov, era stato costretto a marciare a tempo di record mondiale e l'atro, Kanaykin, sarebbe stato trovato positivo al controllo antidoping. Il peggio lo ha passato Sandro Damilano costretto a litigare con Schwazer, che avrebbe voluto allenarsi anche di notte e che ha voluto marciare anche il giorno prima della gara di Pechino, mentre gli altri cercavano di raccogliere tutte le energie da spendere in gara, perchè lui non riesce proprio a stare fermo.

Così è nato il capolavoro cinese, l'uscita dal «Nido» davanti a tutti, dopo un chilometro, sempre governata da re (illuminato), gli avversari che si sono cotti uno dopo l'altro, penultimo l'australiano Tallent, ultimo il russo Nizhegorodov. E, massima sublimazione del cuore, il ritorno solitario, dopo i cinque chilometri finali che sono stati una marcia nell'allegria e uno dei migliori spot che l'atletica potesse regalarsi.

Nemmeno questa è stata una sorpresa, perchè Alex aveva raccontato, ancora in inverno, che se «le cose funzionano e stai davanti, gli ultimi cinque chilometri sono l'emozione più bella per un marciatore, quelli che ti ripagano di tutti i sacrifici che hai fatto». Chi ha faticato con lui, anche stando seduto davanti alla tv dentro lo stadio a guardarlo mentre gli avversari crollavano, chi al traguardo era più stanco di Alex, che avrebbe potuto marciare per altri cinquanta chilometri, adesso ha una sola speranza: che la profezia di Damilano possa avverarsi. «Ha le qualità e l'età per vincere tre volte l'Olimpiade». Ci sono tutte le condizioni per un'impresa così. Basta che le sirene post-olimpiche non lo rovinino e che a novembre tutti ritorni come prima. L'anno prossimo c'è il mondiale di Berlino e c'è ancora chi ha voglia di marciare accanto a lui per altri 50 chilometri. E di sentire Damilano dire alla fine:«Io smetto, non alleno più». Porta bene e non ci crede nessuno.