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Quel busto nel cimitero di Costermano ci ricorda un grande: Adolfo Consolini PDF Print E-mail
Wednesday, 20 December 2023 07:50

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Il busto di Adolfo Consolini, modellato dallo scultore reatino Dino Morsani, domina la valle ai piedi del cimitero di Costermano sul Garda (foto di Encarnacion Tamayo Nevado)

Ricorre oggi l'anniversario della morte di Adolfo Consolini: 20 dicembre 1969. Se ne andò in breve tempo, stroncato da malattia inesorabile. Ancora pochi mesi prima, era il 1° giugno, aveva lanciato il suo disco a 43,94, in Svizzera, allora essendo tesserato per il club SAL Lugano. Un campione fra i campioni, di cui si sono tessute lodi come atleta e come uomo. E il più bravo è stato il nostro socio fondatore Marco Martini che ha dedicato a lui e a Beppone Tosi, gli inseparabili, un libro che, nella sua semplicità, privo di trombonate finto cattedratiche, è il più bello, il più "vero". Almeno per noi.

Negli anni scorsi, un gruppetto di soci dell'ASAI - delle sponde bresciana e veronese del lago di Garda - si sono ritrovati al cimitero di Costermano per un omaggio al sacrario dove riposa Adolfo Consolini. Era un omaggio iniziato da amici che avevano vestito, in vari sport, la maglia azzurra, gli «Azzurri d'Italia». Li guidava un altro grande, Pino Dordoni, affiancato da Edoardo Mangiarotti, Carlo Monti, e parecchi altri. Abbiamo sentito il dovere di continuare questo omaggio, una corona di allloro, la pulizia della tomba - non sempre in ordine...a volte deturpata da qualche stupida genialata...-, qualche decina di minuti di raccoglimento. Un anno vennero anche Sara Simeoni ed Erminio Azzaro, che tengono dimora poco distante da Costermano. Quest'anno varie situazioni personali di questi soci che hanno ancora sensibilità umana e sportiva ci hanno impedito di essere là «in presenza». Ma sentiamo, forte, il dovere di ricordare in questo spazio il grande campione.

E non sarà il solo ricordo. Anticipiamo che nei prossimi giorni pubblicheremo una interessante ricerca del nostro socio Enzo Rivis. Per ora accontentatevi dell'annuncio.

Last Updated on Thursday, 21 December 2023 08:56
 
Armando Filiput "el furlan" nasceva cent'anni fa, Ronchi dei Legionari lo ricorda PDF Print E-mail
Tuesday, 19 December 2023 14:35

I 400 metri con ostacoli hanno regalato all'atletica leggera italiana molte soddisfazioni. Cento anni fa, il 19 dicembre 1923, nasceva uno degli interpreti di questa bellissima disciplina del nostro sport. Erede di Luigi Facelli, l'uomo di Acqui Terme con quattro edizioni di Giochi Olimpici disputate, il campione che godette dell'amicizia del britannico Lord Burghley, l'uomo che detenne il primato d'Europa della specialità. Armando Filiput, nativo di quella contesa e travagliata parte nord orientale della nostra penisola, ne ricevette il testimone in una ideale staffetta, per poi passarlo anni dopo a Salvatore Morale, e poi a Roberto Frinolli, e poi a Fabrizio Mori, e poi e poi...ai bravi ragazzi di ieri e d'oggi. Son passati cento anni dalla sua nascita, e la sua città lo ha voluto ricordare, nella data esatta della sua nascita. Il nostro Archivio storico dell'atletica italiana "Bruno Bonomelli" ha cercato di fare la sua parte e offre qui di seguito un articolo preparato da Alberto Zanetti Lorenzetti, uno scritto documentato, preciso, circostanziato, come nello stile del nostro socio.

E come introduzione allo scritto, prima lasciamo spazio alle immagini. Nella prima a sinistra, una formazione calcistica, forse di un istituto scolastico bresciano: Filiput è il primo da destra, nella fila in basso. Ma la curiosità è la presenza di Sandro Calvesi (il terzo da sinistra in piedi), che di Filiput fu allenatore negli anni trascorsi a Brescia. Accanto la copertina della rivista «Lo Sport» che usciva negli anni '50: un cambio di staffetta 4x400, con Filiput che riceve il testimone da Ottavio Missoni, entrambi accasati alla Società Ginnastica Gallaratese. Pose quasi da divi dello schermo per Pino Dordoni e Armando Filiput, due delle medaglie d'oro per l'Italia ai Campionati d'Europa; la terza fu vinta da Consolini. Da ultimo, un ritaglio della «Gazzetta del Lunedì» datato 28 agosto 1950

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Nel 1923 il paese dove ebbe i natali Armando Filiput si chiamava Ronchi di Monfalcone, ma solo due anni dopo, nel 1925, il nome cambiò in Ronchi dei Legionari a ricordo di quanto lì avvenne il 12 settembre 1919, quando un febbricitante Gabriele D’Annunzio si mise alla testa dell’autocolonna che diede il via a quella che oggi viene ricordata come l’«impresa di Fiume».

Siamo nel Friuli o in Venezia Giulia? Bella domanda. Guardi Wikipedia e ne esci più confuso di prima e allora passi alla Treccani, ma non risolvi la questione. Il fatto è che, come ci insegnavano alle elementari (ma lo fanno ancora oggi?) esiste una geografia fisica ed una politica. E questo aumenta la confusione tirando in ballo lo storico Friuli orientale e i confini delle provincie della regione dalla fine della Grande guerra ad oggi. Però ci salva la Bisiacaria, termine che identifica un’area che comprende otto comuni, uno dei quali è Ronchi. Il dialetto locale è il bisiaco, idioma derivante dalla fusione del veneto con un substrato originario di tipo friulano. E questo ci spiega perché Ottavio Missoni, al cui linguaggio appartenevano gli influssi del veneto zaratino, lo chiamava “Armando el furlan”.

Siamo in una regione, il Friuli Venezia Giulia, dalla grandissima fertilità sportiva. Ma anche se ci limitiamo solo alla Bisiacaria troviamo Monfalcone con tutta la sua tradizione nella vela e nel canottaggio, e Gradisca con i fasti del dopoguerra nel basket. Ed è proprio dividendosi fra pallacanestro, calcio e atletica che inizia l’avventura sportiva di Filiput. Fino al 1942 non ha una preferenza particolare fra le tre discipline e solo quando sperimenta i 400 ostacoli, distanza che in breve tempo lo proietta fra i migliori ostacolisti italiani, la scelta cade sull’atletica. Ha diciotto anni e da pochi mesi indossa i colori dell’U.G. Goriziana. La stagione è un entusiasmante crescendo di successi aggiudicandosi il titolo nazionale dei Seconda Serie, dei Prima Serie, della Gioventù italiana del Littorio, il Premio Quadriennale 44 (Q44) ed infine dei Terza Serie.

In parte lo favorisce il fatto che il miglior specialista italiano, Ottavio Missoni, è assente perché è stato inviato a combattere in Africa settentrionale, ma un avvio di carriera così brillante non s’era mai visto prima. Più che naturale, quindi, il suo esordio in azzurro contro la Svizzera il 23 agosto. Termina l’annata da protagonista, ma in quella successiva è in totale balia degli eventi storici: il 25 luglio cade il fascismo, seguito dall’armistizio dell’8 settembre e dall’occupazione tedesca di Trieste. L’attività sportiva è praticamente nulla e il rischio di essere arruolato per andare a combattere è fortunatamente evitato inserendosi nell’organizzazione della Todt. E non è stata propriamente una passeggiata.

Torna Missoni, cominciano le sfide

Subito dopo la guerra torna a praticare la pallacanestro giocando con l’Itala di Gradisca d’Isonzo ed il livello tecnico è di prim’ordine. Come pure torna a frequentare i rettangoli di gioco del calcio. Riprende l’atletica nel 1946 con l’Edera Trieste, ma non con quella intensità che gli permetterebbe di partecipare agli Europei di Oslo; riesce però ad ottenere la convocazione in Nazionale per l’incontro del 26 settembre. Sempre contro la Svizzera, sempre al Letzigrund di Zurigo, ma stavolta la prestazione è deludente. Di conseguenza per gli imminenti Campionati nazionali non è certo il favorito, e invece sulla pista dell’Arena di Milano torna in possesso della maglia tricolore con il confortante tempo di 54”3.

Anche il 1947 sembra spianargli la strada verso le Olimpiadi dell’anno successivo: dall’attività sportiva universitaria arrivano ottimi risultati in Italia e buone prestazioni ai Giochi mondiali dei goliardi di Parigi. Iniziano le sfide con il rientrante Missoni, che prevale agli Assoluti di Firenze e nell’incontro all’Arena contro gli ungheresi, dove ad Armando non basta portare il primato personale a 54”1 per avere ragione del dalmata, che con questi risultati relega l’avversario ad un ruolo di secondo piano che anche il 1948 purtroppo conferma.

È sul punto di ritirarsi, ma l’incontro con Sandro Calvesi con la conseguente decisione di affidarsi alle cure del tecnico lombardo dà una svolta alla sua carriera. Non solo cambia l’approccio alla tecnica di allenamento, ma addirittura si trasferisce a Brescia, la città del suo nuovo tecnico, vestendo i colori del C.S.I., la squadra di diversi suoi compagni di Nazionale, Tonino Siddi e Gino Paterlini su tutti. Gli viene trovato anche il posto di insegnante di educazione fisica al Liceo scientifico statale Calini e può anche monetizzare la sua esperienza di giocatore di basket allenando la Pallacanestro Marzotto di Manerbio, grosso centro della Bassa bresciana, all’epoca noto per l’industria di abbigliamento e per essere la base logistica di Enzo Ferrari in occasione delle edizioni della Mille Miglia.

Il lavoro con Calvesi inizia da subito a dare risultati. Nel 1949 riprendono le convocazioni in maglia azzurra (l’ennesimo Svizzera – Italia, Ungheria – Cecoslovacchia – Italia e Italia – Belgio) gareggiando spesso anche nella staffetta del miglio sia in Nazionale che con la società lombarda con la quale ottiene il titolo nazionale assieme a Siddi, Paterlini e Colosio (il meno conosciuto del quartetto, ma vincitore del Campionato italiano dei 3.000 siepi nel 1946 e presente in Italia – Belgio nel 1949). Grazie alla vittoria nei 400 ostacoli agli Assoluti ribadisce a Missoni che la leadership nazionale è tutt’altro che scontata. Infine, la stagione si chiude con il miglioramento del primato italiano dei 200 ostacoli, per venti anni (Bruno Bonomelli sottolinea che sono passati 7.420 giorni) detenuto da Luigi Facelli.

1950, annus mirabilis

La progressione continua anche nel 1950. Il 25 giugno torna a battere Missoni con un tempo, 52”9, che lo porta ad avvicinarsi sempre più al record italiano. Ma prima, però, demolisce la miglior prestazione nazionale dei 200 ostacoli correndo in 24”2, mezzo secondo in meno rispetto a quanto fatto l’anno precedente. Il Campionato europeo si disputa a Bruxelles e regala all’Italia tre titoli grazie a Pino Dordoni, Adolfo Consolini ed al nostro Armando. Un bel ricordo dell’impianto belga che viene distrutto il 29 maggio 1985, quando la follia del pseudo-tifo calcistico costa la vita a 39 persone, 32 delle quali italiane. Filiput corre la finale in 51”9 migliorando ulteriormente il record tricolore, già portato a 52”0 durante le batterie), conquista la medaglia d’argento con la 4x400 metri e, dopo aver vinto a Torino gli Assoluti in 51”8, con il primato mondiale delle 440 yards stabilito l’8 ottobre a Milano tocca l’apice della carriera agonistica. Per inciso va ricordato che con il tempo di passaggio ai 400 metri, 51”6, è anche eguagliato il primato europeo del giro di pista con barriere. L’ulteriore abbassamento della miglior prestazione nei 200 ostacoli – corsi in 24” netti a Lione il 15 ottobre – conclude una irripetibile stagione che lo vede protagonista anche negli incontri contro la Svizzera e la Jugoslavia.

La tumultuosa progressione dell’atleta di Ronchi si arresta nel 1951, anno che comunque gli porta il titolo nazionale dei 400 ostacoli e della 4x400 metri, la partecipazione a due incontri in azzurro ed il successo ai Giochi del Mediterraneo.

Il 1952 inizia con un colpo di scena. Armando abbandona il club di Calvesi (nel frattempo diventato Atletica Brescia 1950) provocando numerose polemiche a proposito del comportamento della sua nuova società, la S.G. Gallaratese, rea di rastrellare in giro per l’Italia i migliori atleti, anche quelli di cui non ha bisogno per il Campionato di società, per l’appunto come Filiput, dato che nel sodalizio varesotto già milita Missoni. Ai Giochi olimpici è sesto, stesso piazzamento dell’amico-avversario zaratino quattro anni prima a Londra, e non va oltre la batteria con la staffetta 4x400 metri; si ripete vincendo gli stessi titoli nazionali dell’anno prima ed è schierato nella rappresentativa azzurra che si confronta con gli elvetici e gli jugoslavi. È una discreta annata, ma che delude le speranze che si erano accese due stagioni prima.

Seguono le vittorie ai Campionati italiani del 1953 e 1954 e una serie di presenze in Nazionale che lo portano ad indossare la maglia azzurra complessivamente per 22 volte. L’inserimento nella semifinale più forte gli impedisce l’accesso alla finale degli Europei del 1954 (con il tempo fatto registrare, se avesse corso nell’altra semifinale avrebbe superato il turno) e nel 1955 sale sul terzo gradino del podio dei Giochi del Mediterraneo di Barcellona. Prosegue ancora per un anno, poi il ritiro. Come giustamente rileva Massimiliano Oleotto nel libro “Armando Filiput, oltre ogni ostacolo” gli ultimi anni di attività non sono caratterizzati da un peggioramento delle prestazioni. Il suo rendimento è rimasto costante, ma il mondo va avanti e gli altri migliorano. Dopo aver appeso le scarpe al chiodo, Filiput prosegue con l’insegnamento dell’educazione fisica e allena sia atleti che calciatori fino al 30 marzo 1982, giorno del suo prematuro decesso causato da una neoplasia. Nella sua Ronchi dei Legionari il suo ricordo è affidato al Palazzetto dello sport, che gli è stato intitolato, come pure gli è dedicata la mostra inaugurata all’Auditorium comunale lo scorso 13 dicembre intitolata “Armando Filiput, 100 anni di storia, oltre ogni ostacolo”.

Last Updated on Tuesday, 19 December 2023 19:19
 
Giuliano Gelmi e il ricordo di quei due giri di pista che non finiscono mai PDF Print E-mail
Monday, 18 December 2023 09:40

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Nella foto a sinistra: siamo a Torino, aprile 1949, incontro Piemonte - Clermont Ferrand; Giuliano Germi, diciassettenne, debutta sui 1000 metri. Indossa una maglia della società Lancia che gli era stata prestata, come le scarpette che erano di un saltatore di triplo, e quindi avevano i chiodi anche nel tacco. Era troppo giovane, e quindi inserito abusivamente, vinse, fuori classifica, primo junior in 2'42". A destra, siamo invece a Rimini, 1955, Campionati nazionali universitari: Gelmi, con la maglia del CUS Pavia, trionfa nella finale degli 800 metri con largo vantaggio su Geat, del CUS Bologna

*****

"I migliori auguri di Buone Feste e di buon proseguimento per l’Archivio Storico dell’Atletica Italiana “Bruno Bonomelli” che leggo sempre con attenzione e piacere. Purtroppo, non posso essere contento delle mie condizioni di salute, sento l’avvicinamento al capolinea, ma ti garantisco che sono ugualmente sereno e mi compiaccio di ricordare e osservare le mie fotografie che testimoniano gli oltre 92 anni vita con memoria particolarmente vivace. Un abbraccio. Giuliano Gelmi".

Questo è il messaggio augurale che Giuliano Gelmi ha inviato al presidente dell'ASAI. Parole che toccano il cuore, e che abbiamo deciso di pubblicare per renderne partecipi i nostri soci e tutti coloro che seguono questo nostro sito. Giuliano, bergamasco di nascita, vide la luce a Leffe, in Val Gandino. Poi visse la gioventù a Torino, dove iniziò la pratica atletica. Fu universitario a Pavia, e vestì i colori di quel CUS, vincendo nel 1955 due titoli nazionali universitari (800 e 1500 metri, a Rimini). Come universitario partecipò anche ai Campionati mondiali dei goliardi. Sempre nel 1955 indossò la maglia della Nazionale nell'incontro Grecia - Italia, ad Atene (corse i 1500). Chiuse la carriera di corridore di mezzofondo con primati personali (sempre in quell'anno magico 1955) di 1'54"2 sugli 800 e di 3'58"4 sui 1500.

Giuliano è stato in passato nostro socio effettivo, fu presente anche ad alcune assemblee annuali. Ma anche in seguito, la sua presenza accanto a noi non è mai mancata: ci ha inviato ricordi, fotografie, appunti su atleti del suo tempo. Ce ne fossero tanti come te, caro Giuliano.

Grazie per gli auguri e per il costante incoraggiamento. Ci siamo presi la libertà di pubblicare le tue righe, e adesso ce ne prendiamo un'altra: chiediamo ai soci e ai lettori che accolgano il nostro invito a indirizzarti messaggi di auguri per le prossime Festività, per la tua salute, per la tua famiglia, per farti sentire l'affetto di chi ha ancora rispetto per coloro che hanno onorato il nostro sport con la loro passione. Questo è l' indirizzo mail giulianogelmi@icloud.

Last Updated on Monday, 18 December 2023 23:28
 
Ricordiamo l'amico Martino Gerevini, grafico e artista dalla mano innamorata PDF Print E-mail
Friday, 15 December 2023 07:00

 

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Nelle immagini: in quella verticale l'artista diede vita ad un unicum: il lago di Garda, la località di Gargnano, e il Montegargnano, dove è adagiato il borgo di Navazzo. Questa opera, del 1988, divenne il logo della corsa podistica internazionale «Diecimiglia del Garda». A fianco: siamo a Castenedolo, 14 novembre 2010, nella cantina dell' Azienda Agricola Peri Bigogno, per la esposizione “Da Maratona alla maratona”: Martino Gerevini è accanto a uno dei suoi ultimi lavori, una composizione tridimensionale dedicata alla distanza della maratona, km 42,195. Infine, il logo della ASAI, che l'artista elaborò per noi nel 1994. Le opere fanno parte della “Collezione privata Ottavio Castellini”

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Tredici anni fa, il 15 dicembre 2010, lasciava la vita terrena Martino Gerevini. Fra i nostri soci ci sono raffinati scrittori, coltissimi storici dello sport, accuratissimi compilatori di chilometriche liste di risultati, Martino Gerevini fu nostro socio non per condividere passioni per il nostro sport, ma ha avuto un ruolo del tutto speciale: è stato l'uomo che ha "vestito" di eleganza la nostra immagine, anzi le nostre immagini, il logo, le copertine dei nostri libri (quasi una quarantina, se n'è accorto qualcuno?), manifesti. Tutto all'insegna di una sobria eleganza grafica. Martino è stato per decenni direttore della storica tipografia Apollonio di Brescia, e in questo caso dire storica significa identificare l'anno 1840. Professione tipografo, come amava timidamente dire di tanto in tanto. Ha sempre scansato l'etichetta di "artista", seppure autore di opere bellissime nel filone dell'arte visuale, un maestro del colore, come gli riconobbe quel grande innovatore della grafica che fu Bruno Munari. Martino fu un amico, un grande amico dell'ASAI, mai domandò nulla, si limitava a dire quando presentava a qualcuno di noi un nuovo progetto grafico:"Ti piace?". Ed era felice di vedere che noi eravamo felici. Martino Gerevini il grafico lo faceva di mestiere, non per hobby, non per passatempo...e chi vuol capire...Ha dato molto, tanto, al nostro gruppuscolo. Abbiamo il dovere, oggi, di ricordarlo. Con affetto e con rimpianto.

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Di seguito pubblichiamo il testo di un giornalista del «Giornale di Brescia», Fausto Lorenzi, uomo di solida cultura, attento in particolare a tutto il mondo dell'arte. Il testo fu pubblicato nella brochure di presentazione della mostra «I colori dello sport», organizzata da un socio ASAI in uno storico edificio a Gargnano, sul lago di Garda, nel 2013.

Tra tipografia e arte visuale, un percorso di misure e scatti

di Fausto Lorenzi

Martino Gerevini amava definirsi operatore visuale. Metteva sullo stesso piano la manualità del tipografo e la ricerca attenta ai linguaggi della modernità essenziali, puliti, privi di ogni orpello e ridondanza. Era passato dai caratteri a mano disposti nei telai sui banconi della vecchia stamperia e dall’uso di forbici e colla al mouse ed alla grafica digitale, muovendosi, in parallelo con la sapiente attività professionale, nell’ambito dell’arte visuale. Non ha conosciuto la frattura fra arti e mestieri che ha segnato tanta parte del Moderno, anzi, proprio l’aggancio a problemi tecnici, formali e linguistici specifici dell’attività tipografica è stata per lui una griglia attraverso cui filtrare l’esplorazione di una soggettività più lirica e misteriosa, irriducibile a una fredda meccanica formale, pronta sempre al trasalimento, allo stupore.

Si è basato su una organizzazione di modelli da rovesciare e trasformare in piccole ma mirabolanti avventure, trepide e stupefatte, in territori sconosciuti, in spazi vibratili e metrici, in strutture di luce-movimento, fino a piccole galassie di forma-colore. Si capisce allora come per lui l’arte astratta o concreta – alla quale è imputato di segnare un limite, un “grado zero” oltre il quale è vano procedere – si proponesse come occasione per cambiare continuamente il punto di vista, affidandosi alla mutazione come costante della realtà.

L’arte concreta è quella basata sull’organizzazione degli elementi linguistici della pittura e della scultura. Le strutture primarie alla base dei lavori di Martino - specie il quadrato, il rombo, l’esagono, i numeri, le lettere - erano ricondotte ai dati elementari della superficie, della linea e del colore, nel ritmo misurato delle variazioni e combinazioni di tali elementi. La ricerca di forme e colori puri mirava a definire anche gli aspetti psicologici, di necessità interiore e carica energetica delle sue realizzazioni. Geometria e colore a dare un ritmo ai sondaggi nel mare delle emozioni.

Pochi giorni prima di morire, nel 2010, alla vernice di una mostra a quattro mani con don Renato Laffranchi sul Cantico delle Creature, Martino Gerevini aveva proclamato: “Io sono felice”. Parlava di felicità delle creazioni grafiche e pittoriche che nascevano da una mano che è stata davvero innamorata, a partire proprio dall’etica del lavoro ben fatto, a regola d’arte, e altrettanto dell’inno alla vita, di semplicità francescana, che andava cantando. Le opere che palesavano il modo stesso in cui erano costruite rivelavano infatti la tensione a trasformarsi in una sorta di diaframma trasparente, per fondare relazioni chiare e pure tra le cose e gli uomini. Fino a campi di forza costruiti quasi di nulla, di elementi minimi di simmetria e asimmetria o di modulazione della superficie per generare sorprese continue, anche solo limitandosi sulla soglia di senso.

Gerevini aveva imparato da Bruno Munari, che l’accompagnò in più mostre e cataloghi, come le invenzioni più ardite nascano da processi di semplificazione, dall’impiego di materiali quotidiani semplici (lui usava anche bande per le prove di colore, smarginature e ritagli dei menabò tipografici, per collage ilari e giocosi) pronti sempre a suggerire la metamorfosi degli opposti. Aveva imparato a vedere che le forme si trasformano l’una nell’altra, generando infiniti punti di vista, e sapeva che fra contare e raccontare c’è forte affinità, sicché usava numeri, cifre, simboli geometrici come viatici ai sogni ed alla meditazione. Mirava soprattutto a trasporre cose e immagini “sottratte” alla banalità e funzionalità quotidiana ( e perciò rubate alla serie, all’usura consumistica) e ad affidare loro una delega d’ironia e d’effrazione, di rivolta minima, di inafferrabilità e leggerezza. Un gusto di sortilegio che creava un mondo parallelo, associando una componente di rigore, di calcolo, ad una di alea, di gioco, rispetto alla normalità d’uso delle strutture ordinate.

Gerevini, maturato nel clima di arte programmata, ottico-cinetica e visuale, ha sperimentato anche opere basate su ritmi combinatori che le rendessero ogni volta “aperte”, cioè diverse nella percezione dello spettatore. Per Gerevini, operatore visuale nel mondo dell’arte applicata, diventava quasi un obbligo d’etica professionale ricondursi ai dati basilari di superficie, linea e colore “oggettivizzati” nel linguaggio della grande comunicazione. Ne ha fatto un abito di progettazione di cose “giuste in se stesse”, nell’organizzazione degli elementi linguistici della pittura e della pagina tipografica.

C’è una millenaria tradizione di intarsi e incastri di strutture elementari che ha fondato la nostra percezione del senso dell’ordine, sicché anche ogni colore è portatore di una sua geometria interna, da cui scaturisce una certa struttura. Quadrati, rettangoli, triangoli, esagoni, rombi, cerchi, losanghe si iscrivono in una trama accertata, che pare declinarli in un linguaggio corale, una memoria collettiva. Ma le strutture primordiali, proprio perché replicabili nel tempo, sono idee e si possono tradurre in materie e dimensioni differenti: il senso dell’ordine s’instaura dunque entro una dimensione sfuggente, che si carica anche d’accenti fiabeschi, stupefatti, come generata da una matrice d’eventi latenti. Perciò Le forme, le figure della geometria nei lavori di Gerevini non chiudono lo spazio, ma stanno dentro lo spazio, come se vi galleggiassero.

Negli anni più recenti Martino, da semplici forme geometriche combinate in modo da creare l’illusione della profondità e del movimento, era venuto inseguendo anche movenze biomorfiche, ma soprattutto sempre più s’era orientato verso una sorta di scenografia di libere forme  geometriche, addentellate l’una sull’altra su vari piani di colore, come una musica di energie vibrate.

Insomma, le geometrie in Gerevini si sono ribellate alla piattezza, cercando di vivere oltre le due dimensioni. E non ha avuto paura di ritornare a richiami figurali, per quanto decantati, ridotti a profili, anche nel ricorso crescente al collage ed al computer rispetto alla pittura.

I migliori tipografi hanno sempre insegnato che è nella pulizia della pagina che si fa grande un libro, una locandina, un manifesto, un logotipo, un marchio. Il carattere tipografico è il corpo che hanno le parole per rendersi visibili: le idee, i messaggi, sono già nella forma stessa delle parole, e se il corpo non è coerente con le parole, si genera un disturbo percettivo. E la funzione è anche nel farsi guardare. Gerevini anche nei lavori di annuncio di eventi e di pubblicazione di annuari e repertori di dati e performances sportive ha ripassato tutta un’avventura novecentesca, tesa a fondere nell’identico processo formativo il disegno industriale e le arti visuali. Saggiava le virtualità iconiche dei caratteri tipografici in composizioni di poesia visiva: l’antica legge artigiana dell’opera “a regola d’arte” si accompagnava al bisogno di restituire all’alfabeto - alle parole ed alle immagini del nostro tempo - una forza estetica di rigore, severità e chiarezza comunicativa, sia quando ha usato una forma statica che diventava scansione ritmico-energetica, sia quando ha inscenato un’aritmia sincopata, a indicare con la fusione jazzistica di linee e colori la strada del movimento sul piano.

Un’arte - applicata e no - che si è mossa contro l’immagine gridata, contro il fragore, l’inquinamento visivo, la falsificazione. Ha usato un vocabolario per un immaginario collettivo fatto di eticità e rigore, dove la geometria, la misura corrispondesse a quella dello sforzo atletico, dei risultati sul campo di gara, della sfida - senza barare - ai propri limiti. Anche in questi lavori legati a precise committenze, ma diventati una lunga consuetudine per più decenni, Martino Gerevini ci ha mostrato come i gesti quotidiani di ciascuno debbano essere rigorosi, limpidi, essenziali. Attraverso l’attività tipografico-editoriale e la ricerca d’artista visuale sapeva bene come dall’incontro con forme e colori venisse qualcosa di più d’una semplice comunicazione, ma uno scatto in avanti, un’energia come quella dell’atleta che tende al traguardo, mirando alla precisa cadenza dei passi ed alla precisione del percorso.

Last Updated on Monday, 18 December 2023 09:35
 
Trekkenfild numero 124, tappa di passaggio in attesa della corsa fra i campi PDF Print E-mail
Friday, 03 November 2023 12:25

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Lo potete vedere voi stessi dalla copertina di questo nuovo numero: c'è di tutto un po', e quindi tanto da leggere per gli appassionati del presente. C'è perfino un risvoltino di palla ovale, prendendo spunto dalla recente bellissima Rugby World Cup in Francia, con partite avvincenti e combattute fino all'ultimo secondo, e sempre su scarti di punteggi risicatissimi. Tranne che per il «quindici» italico che ha preso due schiaffoni davvero sonori, e, forse troppo severi, ma avevano difronte il meglio del mondo. E l'Italia a tutto ovale sta su un pianeta molto lontano. Un grande sberlone ha preso la Francia, padrona di casa, eliminata dai primi quattro scranni (Sudafrica campione, All Black neozelandesi, Inghilterra e Argentina), con gran dispetto del loquace presidente Macron. Annata luttuosa per lo sport transalpino: prima del rugby era venuta la magra dei campionati mondiali di atletica, che avevano suscitata la piccata reazione della signora ministro dello sport, Amélie Oudéa-Castéra, che aveva chiamato a rapporto il presidente della Federazione francese e lo aveva rivoltato come un calzino. A Budapest una sola medaaglia d'argento, come le Filippine e il Pakistan. Après ça le déluge! La signora ministro ha un curriculum sportivo di tutto rispetto: tennista di buon livello, presenze giovanili a Wimbleon, Roland Garros, US Open, per dire, titoli in Francia.

C'entra niente con l'atletica, ma in po' di cultura sportiva generale non guasta mai. Già che siamo in tema di schiaffoni. Accenniamo a quello che, pochi giorni fa, ha preso l'Italia dal Comitato olimpico internazionale a proposito dei Giochi, olimpici sempre, quelli del freddo e del gelo, 2026 Milano-Cortina. Oggetto della farsa: la pista di bob, i suoi costi, il suo spostamente in altra sede, visto che Cortina i quattrini non li ha. Si sono offerte due nazioni vicine, che le piste funzionanti le hanno: Innsbruck e Sankt Mortiz, adiacenti le nostre regioni alpine. No, per carità, ha detto uno dei geni attuali della non-politica italiana, e ha spolverato la minchiata che va di moda adesso: Olimpiadi tutte sul suolo italiano! Italy first, tanto per non farci mancare un po' di trumpismo d'accatto.

Pensate la coerenza: no a condividere i Giochi 2026 o con Svizzera o con Austria, sì a spartire i Campionati europei di calcio 2032 con la Turchia del simpaticissimo presidente Recep Tayyip Erdoğan. Rob de matt! Questa dichiarazione ce la siamo annotata al momento dell'assegnazione dell'Europeo pedatorio 2032. Un altro luminare della politica e dello sport dichiarò che la spartizione con la Turchia era "una opportunità per generare eredità positive". Abbiamo chiesto aiuto a Google Traduzioni, niente, si rifiuta di tradurre, la frase non ha senso. Povera Italia, in che brutte mani sei caduta!

Scusi redattore: ma non doveva parlare di Trekkenfild 124? Ha ragione...ma perchè parlarne? meglio leggerlo. Un click sulla copertina e siete dentro.

Last Updated on Monday, 06 November 2023 09:47
 
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