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Adolfo Consolini, gigante sulla pedana del disco, ma soprattutto fuori dal cerchio |
Attorno al feretro di Adolfo Consolini, si riconoscono, sulla sinistra, Pino Dordoni, Carlo Venini (il terzo) e Mario Lanzi (in fondo). Foto gentilmente concessa all'ASAI dalla famiglia Dordoni che custodisce l'archivio collezionato dal grande marciatore piacentino
20 dicembre 1969 – 20 dicembre 2022: cinquantatré anni fa chiudeva gli occhi Adolfo Consolini, l’indimenticabile figlio di contadini di Gazzoli di Albarè, alle porte di Costermano, dove ancora esiste la casa natale. Ricordare questa data e con essa la figura di uno dei più grandi campioni dello sport italiano è per noi dell’Archivio Storico dell’Atletica Italiana «Bruno Bonomelli» non una banale consuetudine ma un obbligo morale. Da alcuni anni un gruppo di nostri soci bresciani e veronesi andavano a rendergli omaggio in quella località che dal lago di Garda sale verso il Monte Baldo, per raccogliersi attorno alla tomba di «Dolfo» (così lo chiamavano in casa e lo conoscevano in paese) e deporre una corona di alloro, quelle foglie che hanno uno stretto legame con gli ideali classici di Olimpia, alloro che era la pianta consacrata ad Apollo in nome del quale si disputavano i Giochi Pitici a Delfi. Prima dell’A.S.A.I fu la Associazione Nazionale Atleti Olimpici e Azzurri d’Italia a rendere omaggio al sepolcro di Consolini ogni anno, immancabili Pino Dordoni, Fiorenzo Magni, Edoardo Mangiarotti, Carlo Monti, Mario Lanzi e molti altri. Adolfo Consolini provò la gioia della vittoria olimpica, a Londra nel 1948, e la accarezzò quattro anni più tardi quando ottenne il secondo posto. Spese sulla pedana del lancio del disco buona parte della sua vita, dal 1937, quando prese parte per la prima volta ad una garetta comunale nel suo paese lanciando il peso, fino al 1969, quando lanciò ancora il suo adorato attrezzo a 43,94, ed era il 1° giugno. Sarebbe spirato il 20 dicembre. Uomo mite, che sfoggiava un sorriso timido, parlava con una vocina in falsetto, era gentile con tutti e tutti, ovunque, gli volevano bene. Aveva vicino quasi sempre il suo esatto contrario, l’esuberante, a Roma direbbero caciarone, Beppone Tosi, l’altro indimenticabile discobolo, un uomo di forza prorompente e di sentimenti immediati, esplosivi. I due si vollero bene come, anzi più, di fratelli. Furono, e restano, i Diòscuri dell’atletica italiana. «I campioni della simpatia» come li chiamò con felice intuizione Marco Martini, dedicando a loro il più bel libro che sia stato pubblicato sulle loro vite. Nello scrivere queste poche misere righe speriamo che il ricordo non sia solamente di noi pochi. Avremmo voluto prendere il traghetto a Maderno, attraversare il Benaco, arrivare a Torri e poi salire la strada che porta a Costermano, ma stavolta non è stato possibile. Su quella porzione di territorio veronese ci aiuta una bella frase scritta da Emanuele Carli nel primo libro dedicato a «Dolfo»; tolta la copia dallo scaffale, l’abbiamo cercata e trovata, dice: “Crebbe sano e robusto, fortificato dall’aria pura e salubre del monte (Baldo) e del lago (di Garda) …”. La stessa aria che oggi nel cimitero municipale di Costermano ne conserva le spoglie mortali, avvolto in quel marmo robusto come il suo torace e le sue braccia, sormontato dalla bronzea scultura del maestro Dino Morsani. |