Home News Homepage Ricordiamo l'amico Martino Gerevini, grafico e artista dalla mano innamorata
Message
  • EU e-Privacy Directive

    This website uses cookies to manage authentication, navigation, and other functions. By using our website, you agree that we can place these types of cookies on your device.

    View e-Privacy Directive Documents

Ricordiamo l'amico Martino Gerevini, grafico e artista dalla mano innamorata PDF Print E-mail

 

alt alt
alt

 

Nelle immagini: in quella verticale l'artista diede vita ad un unicum: il lago di Garda, la località di Gargnano, e il Montegargnano, dove è adagiato il borgo di Navazzo. Questa opera, del 1988, divenne il logo della corsa podistica internazionale «Diecimiglia del Garda». A fianco: siamo a Castenedolo, 14 novembre 2010, nella cantina dell' Azienda Agricola Peri Bigogno, per la esposizione “Da Maratona alla maratona”: Martino Gerevini è accanto a uno dei suoi ultimi lavori, una composizione tridimensionale dedicata alla distanza della maratona, km 42,195. Infine, il logo della ASAI, che l'artista elaborò per noi nel 1994. Le opere fanno parte della “Collezione privata Ottavio Castellini”

*****

Tredici anni fa, il 15 dicembre 2010, lasciava la vita terrena Martino Gerevini. Fra i nostri soci ci sono raffinati scrittori, coltissimi storici dello sport, accuratissimi compilatori di chilometriche liste di risultati, Martino Gerevini fu nostro socio non per condividere passioni per il nostro sport, ma ha avuto un ruolo del tutto speciale: è stato l'uomo che ha "vestito" di eleganza la nostra immagine, anzi le nostre immagini, il logo, le copertine dei nostri libri (quasi una quarantina, se n'è accorto qualcuno?), manifesti. Tutto all'insegna di una sobria eleganza grafica. Martino è stato per decenni direttore della storica tipografia Apollonio di Brescia, e in questo caso dire storica significa identificare l'anno 1840. Professione tipografo, come amava timidamente dire di tanto in tanto. Ha sempre scansato l'etichetta di "artista", seppure autore di opere bellissime nel filone dell'arte visuale, un maestro del colore, come gli riconobbe quel grande innovatore della grafica che fu Bruno Munari. Martino fu un amico, un grande amico dell'ASAI, mai domandò nulla, si limitava a dire quando presentava a qualcuno di noi un nuovo progetto grafico:"Ti piace?". Ed era felice di vedere che noi eravamo felici. Martino Gerevini il grafico lo faceva di mestiere, non per hobby, non per passatempo...e chi vuol capire...Ha dato molto, tanto, al nostro gruppuscolo. Abbiamo il dovere, oggi, di ricordarlo. Con affetto e con rimpianto.

*****

Di seguito pubblichiamo il testo di un giornalista del «Giornale di Brescia», Fausto Lorenzi, uomo di solida cultura, attento in particolare a tutto il mondo dell'arte. Il testo fu pubblicato nella brochure di presentazione della mostra «I colori dello sport», organizzata da un socio ASAI in uno storico edificio a Gargnano, sul lago di Garda, nel 2013.

Tra tipografia e arte visuale, un percorso di misure e scatti

di Fausto Lorenzi

Martino Gerevini amava definirsi operatore visuale. Metteva sullo stesso piano la manualità del tipografo e la ricerca attenta ai linguaggi della modernità essenziali, puliti, privi di ogni orpello e ridondanza. Era passato dai caratteri a mano disposti nei telai sui banconi della vecchia stamperia e dall’uso di forbici e colla al mouse ed alla grafica digitale, muovendosi, in parallelo con la sapiente attività professionale, nell’ambito dell’arte visuale. Non ha conosciuto la frattura fra arti e mestieri che ha segnato tanta parte del Moderno, anzi, proprio l’aggancio a problemi tecnici, formali e linguistici specifici dell’attività tipografica è stata per lui una griglia attraverso cui filtrare l’esplorazione di una soggettività più lirica e misteriosa, irriducibile a una fredda meccanica formale, pronta sempre al trasalimento, allo stupore.

Si è basato su una organizzazione di modelli da rovesciare e trasformare in piccole ma mirabolanti avventure, trepide e stupefatte, in territori sconosciuti, in spazi vibratili e metrici, in strutture di luce-movimento, fino a piccole galassie di forma-colore. Si capisce allora come per lui l’arte astratta o concreta – alla quale è imputato di segnare un limite, un “grado zero” oltre il quale è vano procedere – si proponesse come occasione per cambiare continuamente il punto di vista, affidandosi alla mutazione come costante della realtà.

L’arte concreta è quella basata sull’organizzazione degli elementi linguistici della pittura e della scultura. Le strutture primarie alla base dei lavori di Martino - specie il quadrato, il rombo, l’esagono, i numeri, le lettere - erano ricondotte ai dati elementari della superficie, della linea e del colore, nel ritmo misurato delle variazioni e combinazioni di tali elementi. La ricerca di forme e colori puri mirava a definire anche gli aspetti psicologici, di necessità interiore e carica energetica delle sue realizzazioni. Geometria e colore a dare un ritmo ai sondaggi nel mare delle emozioni.

Pochi giorni prima di morire, nel 2010, alla vernice di una mostra a quattro mani con don Renato Laffranchi sul Cantico delle Creature, Martino Gerevini aveva proclamato: “Io sono felice”. Parlava di felicità delle creazioni grafiche e pittoriche che nascevano da una mano che è stata davvero innamorata, a partire proprio dall’etica del lavoro ben fatto, a regola d’arte, e altrettanto dell’inno alla vita, di semplicità francescana, che andava cantando. Le opere che palesavano il modo stesso in cui erano costruite rivelavano infatti la tensione a trasformarsi in una sorta di diaframma trasparente, per fondare relazioni chiare e pure tra le cose e gli uomini. Fino a campi di forza costruiti quasi di nulla, di elementi minimi di simmetria e asimmetria o di modulazione della superficie per generare sorprese continue, anche solo limitandosi sulla soglia di senso.

Gerevini aveva imparato da Bruno Munari, che l’accompagnò in più mostre e cataloghi, come le invenzioni più ardite nascano da processi di semplificazione, dall’impiego di materiali quotidiani semplici (lui usava anche bande per le prove di colore, smarginature e ritagli dei menabò tipografici, per collage ilari e giocosi) pronti sempre a suggerire la metamorfosi degli opposti. Aveva imparato a vedere che le forme si trasformano l’una nell’altra, generando infiniti punti di vista, e sapeva che fra contare e raccontare c’è forte affinità, sicché usava numeri, cifre, simboli geometrici come viatici ai sogni ed alla meditazione. Mirava soprattutto a trasporre cose e immagini “sottratte” alla banalità e funzionalità quotidiana ( e perciò rubate alla serie, all’usura consumistica) e ad affidare loro una delega d’ironia e d’effrazione, di rivolta minima, di inafferrabilità e leggerezza. Un gusto di sortilegio che creava un mondo parallelo, associando una componente di rigore, di calcolo, ad una di alea, di gioco, rispetto alla normalità d’uso delle strutture ordinate.

Gerevini, maturato nel clima di arte programmata, ottico-cinetica e visuale, ha sperimentato anche opere basate su ritmi combinatori che le rendessero ogni volta “aperte”, cioè diverse nella percezione dello spettatore. Per Gerevini, operatore visuale nel mondo dell’arte applicata, diventava quasi un obbligo d’etica professionale ricondursi ai dati basilari di superficie, linea e colore “oggettivizzati” nel linguaggio della grande comunicazione. Ne ha fatto un abito di progettazione di cose “giuste in se stesse”, nell’organizzazione degli elementi linguistici della pittura e della pagina tipografica.

C’è una millenaria tradizione di intarsi e incastri di strutture elementari che ha fondato la nostra percezione del senso dell’ordine, sicché anche ogni colore è portatore di una sua geometria interna, da cui scaturisce una certa struttura. Quadrati, rettangoli, triangoli, esagoni, rombi, cerchi, losanghe si iscrivono in una trama accertata, che pare declinarli in un linguaggio corale, una memoria collettiva. Ma le strutture primordiali, proprio perché replicabili nel tempo, sono idee e si possono tradurre in materie e dimensioni differenti: il senso dell’ordine s’instaura dunque entro una dimensione sfuggente, che si carica anche d’accenti fiabeschi, stupefatti, come generata da una matrice d’eventi latenti. Perciò Le forme, le figure della geometria nei lavori di Gerevini non chiudono lo spazio, ma stanno dentro lo spazio, come se vi galleggiassero.

Negli anni più recenti Martino, da semplici forme geometriche combinate in modo da creare l’illusione della profondità e del movimento, era venuto inseguendo anche movenze biomorfiche, ma soprattutto sempre più s’era orientato verso una sorta di scenografia di libere forme  geometriche, addentellate l’una sull’altra su vari piani di colore, come una musica di energie vibrate.

Insomma, le geometrie in Gerevini si sono ribellate alla piattezza, cercando di vivere oltre le due dimensioni. E non ha avuto paura di ritornare a richiami figurali, per quanto decantati, ridotti a profili, anche nel ricorso crescente al collage ed al computer rispetto alla pittura.

I migliori tipografi hanno sempre insegnato che è nella pulizia della pagina che si fa grande un libro, una locandina, un manifesto, un logotipo, un marchio. Il carattere tipografico è il corpo che hanno le parole per rendersi visibili: le idee, i messaggi, sono già nella forma stessa delle parole, e se il corpo non è coerente con le parole, si genera un disturbo percettivo. E la funzione è anche nel farsi guardare. Gerevini anche nei lavori di annuncio di eventi e di pubblicazione di annuari e repertori di dati e performances sportive ha ripassato tutta un’avventura novecentesca, tesa a fondere nell’identico processo formativo il disegno industriale e le arti visuali. Saggiava le virtualità iconiche dei caratteri tipografici in composizioni di poesia visiva: l’antica legge artigiana dell’opera “a regola d’arte” si accompagnava al bisogno di restituire all’alfabeto - alle parole ed alle immagini del nostro tempo - una forza estetica di rigore, severità e chiarezza comunicativa, sia quando ha usato una forma statica che diventava scansione ritmico-energetica, sia quando ha inscenato un’aritmia sincopata, a indicare con la fusione jazzistica di linee e colori la strada del movimento sul piano.

Un’arte - applicata e no - che si è mossa contro l’immagine gridata, contro il fragore, l’inquinamento visivo, la falsificazione. Ha usato un vocabolario per un immaginario collettivo fatto di eticità e rigore, dove la geometria, la misura corrispondesse a quella dello sforzo atletico, dei risultati sul campo di gara, della sfida - senza barare - ai propri limiti. Anche in questi lavori legati a precise committenze, ma diventati una lunga consuetudine per più decenni, Martino Gerevini ci ha mostrato come i gesti quotidiani di ciascuno debbano essere rigorosi, limpidi, essenziali. Attraverso l’attività tipografico-editoriale e la ricerca d’artista visuale sapeva bene come dall’incontro con forme e colori venisse qualcosa di più d’una semplice comunicazione, ma uno scatto in avanti, un’energia come quella dell’atleta che tende al traguardo, mirando alla precisa cadenza dei passi ed alla precisione del percorso.