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Io la penso così.........L'opinione di Giorgio Reineri (4) PDF Stampa E-mail
Giovedì 22 Agosto 2013 17:29

Il nostro socio Giorgio Reineri chiude con un commento finale il suo spazio-opinione sul nostro sito in occasione dei Campionati mondiali di atletica a Mosca. Opinione, e, come tale, condivisibile o meno. Prima e durante i mondiali abbiamo provato a lanciare una proposta: la lettera aperta di Luciano Barra al presidente della IAAF, lettera che conteneva molti spunti, e le "opinioni" di Reineri. Nessuno ha niente da dire? aggiungere? criticare? o come sempre la risposta alla discussione è lasciata al mugugno, al brontolio indistinto dove non si riesce mai a capire cosa vogliono coloro che stanno, a qualsiasi titolo, dentro l'atletica? Storia vecchia e risaputa. E non è un caso che siamo finiti dove stiamo: in fondo al gruppo. In silenzio.

Cinque giorni son passati da quando lo stadio Luzhniki di Mosca ha chiuso i battenti, per non riaprirli forse mai più. In nome del calcio-trionfante e della speculazione-rampante, l’antico impianto, costruito a metà degli anni Cinquanta e rimodernato a metà di quelli Novanta, dovrebbe esser abbattuto per lasciar posto ad una mostruosa costruzione da centomila spettatori (contro i cinquantamila di oggi). Così, si dice, pretenderebbe la FIFA, che a Mosca celebrerà i riti pallonari del 2018; e così pare vadano reclamando alcuni furbi costruttori moscoviti, che non vedono l’ora di far la cresta su di un budget che varia tra dai 10 ai 28 miliardi di rubli (230-690 milioni di euro). A rischio sparizione non c’è soltanto un bel po’ di storia sportiva russo-sovietica – in quello stadio si tennero le Universiadi 1973 e i Giochi Olimpici 1980 oltre a concerti e spettacoli: tra gli altri, i Rolling Stones, Madonna e la rock star Viktor Tsoi – ma anche uno dei più bei parchi d’Europa, affacciato sulla Moscova e dominato dalla mole gotico-stalinista dell’Università Lomonosov, prossimo ad essere cementato per uso alberghiero-commerciale.
Così, la nostalgia che abbiamo avvertito al calar del sipario sui XIV campionati del mondo di atletica si è rinnovata nel momento in cui ci lasciavamo alle spalle quell’oasi di verde e maestose architetture. Perchè proprio nell’immensità silenziosa del parco aveva avuto una svolta – or sono giusto quarant’anni – la nostra professione di cronisti: cercare di scrutare, oltre le imposizioni del regime, la realtà del comunismo sovietico.
Ma è davvero cambiata la Russia? Un amico d’anta’n – Igor Ter Ovanesian – ci ha detto categorico: “Un tempo avevamo gli zar, poi abbiamo avuto il segretario del partito comunista e adesso abbiamo Putin. Ma sotto la superficie luccicante di oggi, sotto il rombare delle Rolls Royce, delle Ferrari, delle Porsche e delle Mercedes, tutto è rimasto come prima. Il commercio della anime morte continua, indisturbato ed eterno”.
Igor Ter Ovanesian - il principe Igor degli anni Sessanta, ex primatista del mondo di salto in lungo e per cinque edizioni protagonista olimpico di questa specialità – e’ oggi un artista che ha fatto della pittura rifugio e diletto. Ma è ancora un sommo competente di atletica, con un occhio svelto a leggere il talento e a valutare il valore dei campioni. Ebbene, in chiusura dei campionati proprio Ter Ovanesian ci ha detto d’essersi divertito e di aver apprezzato la manifestazione. Nessun record, ha commentato, ma i salti in lungo di Menkov, il triplo di Tamgho, l’asta di Isinbaeva, l’alto di Bondarenko luccicavano come fossero stati altrettanto primati.
Come contraddire un antico saggio quale è il principe Igor? Sarebbe pura presunzione sostenere una tesi contraria: i giochi mondiali sono stati degni del loro nome, e anche alcune competizioni non sfavillanti in termini cronometrici hanno garantito lo spettacolo. O forse che le volate di Mo  Farah non lo furono? E la rivelazione della keniana Sum sugli 800 metri non ha di grazia rappresentato una perfetta sintesi dell’atletica? Eleganza di passo, agilità di movimenti, giudizio tattico e una grazia speciale, che discendeva pure dalla statuaria bellezza della signorina.
I nove giorni di gare hanno, a giudizio di questo ex cronista, offerto spunti di gioiosa ricreazione e di autentico piacere per i millanta gusti dei quasi 400mila spettatori dello stadio. Ma, a sentire commenti, hanno pure appagato il desiderio di spettacolo di chi, lontano, s’era affidato alle immagini televisive. Insomma, anche in un anno post-olimpico, per definizione mai troppo brillante, l’atletica è riuscita a farsi apprezzare.
Il problema, per chi dirige il carrozzone, è di non lasciar svanire quell’apprezzamento ma riuscire a raccogliere qualche nuova adesione, così da rinvigorire questa religione laica dell’uomo.
Ci sono, tuttavia, zone grigie. O zone dove, addirittura, la luce atletica pare essersi spenta. Si prendano gli Stati Uniti: oltre ad esser stati superati, in numero di medaglie d’oro, dalla Russia (6 a 7), per la prima volta i suoi velocisti hanno subito un pesante cappotto, più pesante addirittura di quello di Monaco ’72. Tra gli uomini e tra le donne, una debacle, ove si escluda Justin Gatlin. Mai era successo, difatti, che gli sprinter Usa ottenessero meno medaglie dei mezzofondisti: ottocentisti e millecinquecentisti di entrambi i sessi, difatti, sono stati assai più brillanti dei colleghi centisti e duecentisti. Ma non si creda che questo sia un caso. È, invece, il risultato della sparizione dell’atletica in larghe parti dell’America, e soprattutto della sua sparizione dai mezzi di comunicazione: televisione e stampa scritta. Sui quotidiani Usa si parla di atletica soltanto in due occasioni: per redigere “obituaries”, cioè i necrologi di campioni defunti, o per casi di doping, ultimo quello di Tyson Gay. Tutto ciò - l’atletica considerata attività di sopravvissuti - ha fatto sì che questa disciplina venga sempre più spesso depennata dalle attività sportive dei colleges. Dovendo tagliare i budget, le università hanno tagliato l’atletica, eliminando le borse di studio che un tempo erano riservate a migliaia di giovani corridori, saltatori, lanciatori. E questi, considerati i costi proibitivi della frequenza universitaria, si sono rivolti al football e al basket (e, in minima parte, ora anche al calcio). Si è così andata inaridendo la principale, anzi la unica, fonte di reclutamento negli Stati Uniti: da qui, il dominio giamaicano e la debacle americana.
Somiglia a quella degli Usa, la debacle italiana. Somiglia, ma non è certo la stessa cosa perchè  l’America, considerata la ricchezza delle sue etnie, potrà ancora avere sussulti; l’Italia, invece, nessuno.
Da noi, lo sport è moribondo. Tutto lo sport, non soltanto l’atletica o il nuoto. Anche il calcio è in rianimazione, sopravvivendo soltanto grazie all’ossigeno straniero. Ma se il calcio fruisce di una pubblicità a tempo pieno – 24 ore su 24 – l’atletica mette a stento assieme 24 minuti il trimestre. Via dalla tivù, via dai giornali, essa è ormai sconosciuta ai giovani. I quali, già pigri del loro, figurarsi se penseranno mai d’affrontare le fatiche, i sacrifici, le incertezze dell’agonismo professionale.
Non c’è dunque da stupire che l’Italia abbia fatto, a Mosca, la parte dell’intrusa. Assente dalla maggioranza delle gare; e quando presente si era lì soltanto per fare numero, riempiendo le corsie. O, certo, l’Italia non è l’unico paese europeo in agonia: Spagna, Romania, Bulgaria, Finlandia ci tengono la mano. La Svizzera segue, e non lontane sono Norvegia e Svezia, tutti paesi di antica nobiltà atletica.
Occorerebbe una grande opera missionaria, per ridare a questi popoli la loro originaria religione. Non serve, a questo punto, andare in paesi lontani, in posti sperduti, a diffondere il verbo atletico. È imperativo, perchè l’atletica sopravviva, che si rieduchi la gioventù europea.
A chi l’arduo compito?
L’impressione è che non ci siano missionari all’altezza, e che soprattutto il blocco calcistico fatto dalla commistione tra interessi miliardari e informazione televisiva sia così potente, e imbattibile, da bloccare ogni inversione di tendenza. Proprio come avviene, a parti rovesciate, negli Stati Uniti: dove football, baseball, basket e hockey tengono il calcio fuori dai grandi circuiti di informazione-spettacolo.    

 

 

   

Ultimo aggiornamento Giovedì 22 Agosto 2013 17:49
 
Io la penso così.........L'opinione di Giorgio Reineri (3) PDF Stampa E-mail
Venerdì 16 Agosto 2013 16:29

Giorgio Reineri scrive per noi.....

Accadono cose stravaganti in questi XIV Campionati del mondo moscoviti. Così stravaganti da lasciarci a bocca spalancata, proprio come quella che Bohdan Bondarenko mostrava al pubblico prima di ogni suo salto. Oddio, il giovanotto ucraino – che compirà 24 anni il prossimo 30 agosto – di salti non è che ne abbia fatti molti, giovedì sera: quattro, difatti, gli erano bastati per arrivare al titolo mondiale e al nuovo primato delle competizione (m.2,41), sottratto a Javier Sotomayor. Ciò che, invece, non riusciva a Bondarenko era di cancellare il grande cubano dalla sommità della classifica, ma i tre tentativi a m. 2,46 non avevano avuto nulla di velleitario nè erano apparsi un gioco scenico: presto, anche quella vetta sarà conquistata.
La competizione di salto in alto maschile è stata, difatti, la più spettacolare della storia atletica. Mai tre atleti avevano superato assieme m. 2,38, come riuscito a Essa Barshim, Derek Drouin e Bohdan Bondarenko. Anzi, no: nello scrivere la riga che precede abbiamo commesso un’inesattezza. Non se ne stupisca il lettore, che ben conosce come gli scribi siano propensi all’errore. E tuttavia, nel caso specifico, più che di errore si dovrebbe discorrere di interpretazione:  in effetti, l’ucraino mai superò l’asticella posta a quell’altura, avendo deciso ch’essa non valeva lo sforzo e meglio era passare direttamente a m. 2,41.
A memoria di cronista mai s’era veduto, sulla pedana del salto in alto, un azzardo così alto. Perchè il qatarino (di origine sudanese) Barshim i 2,38 li aveva superati al primo tentativo, e al secondo li sorvolava pure il canadese Drouin. Ora, tutto il peso della competizione stava sulle gambe di camoscio dell’ucraino: che mostrasse lui le carte che possedeva.
Pensavamo, nel registrare la decisione, che la follia abita spesso le menti atletiche. E, in particolare, quelle dei saltatori. Essi sono fatti di speciale pasta, forse perchè hanno ali più che gambe. Sognano di volare, e in effetti volano: da Valery Brumel a Javier Sotomayor, passando per quel visionario geniale che fu l’ingegnere Dick Fosbury, nessuno si è mai sottratto agli imprevedibili ghiribizzi dell’estro. E se questa è da considerarsi la prima indicazione del talento di un saltatore, ebbene Bohdan Bondarenko dev’esserne zeppo come una matrioshka.
Si provi a svuotarla, quella matrioshka ucraina. E si scoprirá che la appena estratta ne contiene ancora un’altra, minuscola fin che si vuole ma ancora ricca di sorprese. Una miniera tanto ricca da offrire brividi e godimento estetico, insomma tutto ciò che l’aficionado cerca nelle esibizioni atletiche.
L’intera competizione di salto in alto è stata percorsa da brividi, ancor prima che Bondarenko facesse la sua comparsa a m. 2,29. In pedana stavano difatti uomini costruiti con speciale tessuto elastico: dal russo Ukhov, il campione olimpico, alla medaglia d’argento di Londra, l’americano Erik Kynard; e neppure da disprezzare erano il bahamense Donald Thomas, l’altro russo Alexsandr Shustov e il britannico Robert Grabarz. Ciascuno di loro avebbe potuto esser un degno campione, non gli fosse toccato di volare contro le ali di Barshim, Drouin e Bondarenko.
Erano decenni che non si godeva così. L’ultima volta, in effetti, era stato ai Campionati del mondo di Stoccarda, dove Sotomayor s’era staccato dalla compagnia superando i m.2,40 mentre il polacco Partyka e l’inglese Smith rimanevano bloccati a m. 2,37. Ma giovedi notte, col sole che calava dietro le guglie dell’Università Lomonosov – uno dei sette palazzi “stalinisti” di Mosca – Bohdan Bondarenko ci risvegliava quegli antichi ricordi aggiungendoci del suo: il balzo, al secondo tentativo a m. 2,41, era davvero il volo d’un candido airone.
Bondarenko è difatti un giunco di m. 1,97, innervato splendidamente. I suoi muscoli, quando lavorano, sfrigolano come seta mentre le articolazioni sono delicatissimi elastici. Così delicati, che i suoi ginocchi hanno già dovuto subire l’offesa dei ferri chirurgici, e pure le giunture dell’inguine hanno patito l’accumularsi delle fatiche tanto da tenerlo bloccato a lungo, lo scorso inverno. Ma Bondarenko, che fu campione mondiale juniores nel 2008 con m. 2,26; e poi vincitore dell’Universiade nel 2011 e settimo lo scorso anno a Londra con m. 2,29 (stessa misura di Barshim, medaglia di bronzo), deve possedere anche eccezionali capacità di recupero. E, difatti, dopo un esordio internazionale a Doha, eccolo già approdare a m. 2,41 lo scorso luglio a Losanna.
Insomma, in una certa misura si era preparati a qualcosa di notevole. Lo aveva garantito Victor Bondarenko, ex decathleta, che del giovanotto è padre e allenatore. Lo sapevano i suoi compagni della Facoltà di sport dell’Università di Kharkiv, la città dove è nato e dove vive, e pure molti tra il milione e passa dei suoi concittadini. I quali erano numerosi sulle gradinate dello stadio Luzhniki, aggregati ad un gruppo di ucraini entusiasti e inesausti nella loro passione di aficionados.
Non tutti gli aficionados, però, sono di questi giorni entusiasti. A noi capita spesso di pensare ai pochi italiani che ancora sentono affezione per quest’antichissima religione, la prima che l’uomo abbia praticato per poter davvero diventare “sapiens sapiens”. Ci verrebbe da scrivere, anzi, che in Italia non c’è più religione, e sono del tutto spariti i suoi celebranti. Non è cosa di questi giorni, perchè sono anni che si procede in un vorticoso declino che non pare trovare il fondo. O, forse, il fondo lo si è toccato qui, dove la sparizione dell’Italia a livello internazionale si è purtroppo compiuta. Non gettiamo la colpa sulle spalle larghe della sfortuna (caso Greco) né su quelle degli attuali dirigenti: il nuovo governo federale, da pochi mesi in carica, che avrebbe potuto fare? Ecco: l’unica cosa che avrebbe dovuto fare, e che purtroppo non ha fatto, era di dire chiaro e tondo che si stava nella melma.
Come venirne fuori? Ci vorranno anni di forsennato lavoro che potrebbero anche servire a nulla. Si tratta, difatti, di invertire una rotta nelle abitudini della gioventù, che ora ignorano l’atletica, e cercare di riportare qualche ragazzo e qualche ragazza sulle piste atletiche. Servirebbe una santa alleanza con chi ha in mano l’informazione: televisiva e non. Insomma, servirebbe l’impossibile: almeno per l’Italia di questi anni di disgrazia.    

Ultimo aggiornamento Giovedì 22 Agosto 2013 17:18
 
Tramonto del buon gusto sulle piste di atletica PDF Stampa E-mail
Venerdì 16 Agosto 2013 07:28

Ieri, allo Stadio Luzhniki di Mosca, abbiamo assistito ad una vergognosa esibizione di un tale che doveva ritirare la medaglia d'oro in quanto campione del mondo della sua disciplina. Il suddetto (il cui nome ci produce fastidio citare) è salito sul podio carponi, sì, avete capito bene, carponi, levandosi poi in piedi fra contorcimenti similsessuali o semplicemente animaleschi. Un gesto che va ben aldilà di tutte le scemenze cui ormai siamo obbligati ad assistere continuamente durante giochi sportivi, mondiali od olimpici che siano: bandiere nazionali usate ormai come sudari (quando interverrano gli Stati per impedire questa vergogna? ci sembra che esista un reato di oltraggio alla bandiera nazionale), adesso anche come tappetini su cui pregare rivolti alla Mecca (abbiamo assistito anche a questo al Luzhniki), oppure - visto con gli occhi di chi scrive  queste righe - per ripulirsi il naso pensando di essere fuori vista; stupide manfrine di dita puntate al cielo come se il Dio (a ciascuno il suo) di tutte le religioni avesse il tempo di occuparsi di emerodromi non sempre di specchiate virtù ed onestà e di favorire prestazioni ottenute talvolta con l'inganno. Ma ieri si è passato ogni limite di buon gusto, decenza e rispetto. Uno ha il diritto di essere un coglione, ma chi dirige (meglio, dovrebbe dirigere) questo nostro sport ha il dovere di intervenire immediatamente su un comportamento inqualificabile come questo, bloccandolo con severe sanzioni prima che diventi una abitudine. E non c'è nessun virus più rapido nel propagarsi dell'idiozia. Un silenzio assordante, invece. Tanto la gente ride, si diverte a queste pagliacciate, ridiamo anche noi, spensierati. No, a chi è rimasto ancora un minimo di buon senso, non resta che piangere.

Ultimo aggiornamento Mercoledì 21 Agosto 2013 07:05
 
Appendice alla "opinione" di Giorgio Reineri in tema di atleti ammessi ai Campionati mondiali IAAF PDF Stampa E-mail
Martedì 13 Agosto 2013 13:40

Giorgio Reineri nella sua "opinione" di oggi solleva il problema delle norme IAAF sulla possibilità di iscrivere atleti ai Campionati del mondo. Condividiamo quanto scrive circa la ignoranza - palese ed estesa -  di queste norme perfino da parte di addetti ai lavori (ormai sono sempre meno nel mondo coloro che sanno qualcosa di questo nostro povero sport) e della confusione creata da norme che non servono, a nostro giudizio, assolutamente a niente. L'atletica, diciamolo senza tema di essere smentiti, è già sport sufficientemete difficile nella sua complessità tecnica e regolamentare, senza bisogno di ulteriori complicazioni.

Abbiamo chiesto a un nostro socio che con questi problemi deve fare i conti giornalmente di darci gli elementi per capire meglio. Ecco, qui di seguito, raggruppate le nuove norme. Codicillo: sono le stesse pubblicate da oltre un anno sul sito della Federazione internazionale, siamo convinti che non molti le abbiano lette, a riprova che tutto 'sto gran mito di Internet non rende la gente più preparata e informata.

* The Area Champions in all the individual events (except the Marathons) automatically qualify for the World Championships and will be considered as having achieved the “A” standard.
* 10,000m – The Top 15 athletes finishing in the senior Men’s and senior Women’s races at the 2013 IAAF World Cross Country Championships are considered to have achieved the A Standard for the World Championships.
* Combined Events – The Top three in the 2012 Men’s and Women’s IAAF Combined Events Challenge are considered to have achieved the A Standard for the World Championships.
* 20km Race Walk – The Top three in the 2012 Men’s and Women’s IAAF World Race Walking Challenge Final are considered to have achieved the A Standard for the World Championships.
* Reigning World Champion / Diamond League and Hammer Throw Challenge Winner – In addition to the above regulations and the maximum of three athletes competing from each country, the IAAF will accept the participation of the current World Outdoor Champion and that of the Winner of the 2012 IAAF Diamond League (in the corresponding World Championships events) and 2012 Hammer Throw Challenge as wild cards, on the condition that the athlete in question is entered by his Federation. If both are from the same country, only one of the two can be entered with this wild card. If a Federation has four athletes in one event as a result of this regulation, all four will be permitted to compete.
* Marathons - The top 10 finishers at the IAAF Gold Label Marathons (in 2012 and in 2013) held within the qualification period will also be considered as having achieved the “A” Standard.

Ultimo aggiornamento Martedì 13 Agosto 2013 14:50
 
Io la penso così.........L'opinione di Giorgio Reineri (2) PDF Stampa E-mail
Martedì 13 Agosto 2013 04:51

Giorgio Reineri scrive per noi......

Usain Bolt ha sconfitto, nella finale mondiale dei 100 metri, anche l’infido clima russo. Con un ghiribizzo tanto improvviso quanto inatteso il cielo moscovita s’era difatti riempito di lampi e tuoni, quasi volesse gareggiare in saette – bolt, per l’appunto – con il giamaicano. Pochi minuti prima che gli otto atleti venissero chiamati ai blocchi l’acqua aveva preso a precipitare sullo stadio Olimpico “Luzhniki”, e la temperatura era calata di botto da ventotto a ventuno gradi. Una brezza maligna batteva sui petti degli sprinter, raffreddandone i bollori. Peggior prologo non poteva esserci, per la più attesa delle competizioni.
Imperturbabili eran rimasti i corridori,  mentre andavano schierandosi ai blocchi di partenza. Bolt, inginocchiato, aveva alzato un dito al cielo: non per domandare comprensione a Giove Pluvio ma per indicare, soltanto, da dove avrebbe tratto ispirazione e forza. Justin Gatlin, invece, era già immobile: bronzea statua che attendeva, con lo sparo, l’alito vitale.
Echeggiò, nel silenzio, il colpo secco dello start. Justin volò via, il corpo piegato, la testa protesa in avanti-basso, i passi rapidi e possenti. Guadagnò mezzo metro, o forse più, su Bolt che s’era rizzato d’incanto e spiegava l’ali. Il duello tra i due si fece magnifico: Justin era un toro che caricava, Usain un torero che gli voleva sfuggire. Per sessanta metri la corsa rimase in equilibrio, prima che le ampie ali di Bolt avessero ragione del toro scatenato. Nel diluvio, saettò sullo schermo eletronico il tempo del vincitore: 9’’77. Appena otto centesimi più tardi, Justin bloccò le fotocellule su 9’’85. Poi, arrivarono altri siluri: Carter, Bailey-Cole, Ashmeade, tutti giamaicani.
Ma quanti erano i giamaicani in gara, ci domandammo. Quattro? E perchè? Nell’agitazione del momento la cosa ci parve strana, ma non era tempo d’indagare. C’era, piuttosto, da celebrare: con quell’acqua e con quel calo di temperatura, i muscoli degli atleti avevano compiuto un miracolo. A tutti, difatti, si doveva abbonare un decimo di secondo rispetto a condizioni ottimali: in breve, senza pioggia e senza vento (contrario) Bolt avrebbe corso in 9’’67 e Gatlin in 9’’75. Ma l’atletica è un gioco all’aperto, e dunque non vale lamentarsi.
Lamentarsi, poi, di che? Quattro giamaicani e un americano sotto i dieci secondi netti, secondo previsioni. L’unica eccezione, lo statunitense Mike Rodgers: era rimasto imbambolato sui blocchi, preso da improvviso panico. E aveva pagato, con il sesto posto e un tempo, per lui, mediocre: 10”04. Epperò, proprio rivedendo l’arrivo ci ritornava alla mente il rovello: perchè quattro giamaicani?
Ah - ci rispose un tecnico con l’aria di sufficienza - perchè Bolt è campione in carica e tiene diritto di partecipare. Certi tecnici hanno la memoria corta: Bolt fu squalificato a Daegu, quindi non era il campione in carica. E chi era il campione in carica? Yohan Blake, giamaicano, ma assente per infortunio. Allora, perchè quattro giamaicani?
Nessuno conosceva la risposta. Ci disse un altro tecnico: la “wild card” di Blake transita al Paese, che ne può disporre a suo piacimento. Stupidità, pensammo subito: e, difatti, questa non è la regola. Per scoprirla, la regola, bisognava cercare col lanternino, dopo aver invano interrogato segretari di Federazioni e altri esperti. Cercare col lanternino, sino a incocciare in Sandro Giovannelli, l’ex direttore delle competizioni della IAAF.
Ci disse: è stato modificato il regolamento, lo scorso inverno, attribuendo una “wild card” anche ai vincitori della Golden League. Ma neppure il sapiente Giovannelli sapeva chi fosse stato, l’anno passato, il vincitore della Golden League sui 100 metri. E per scoprirlo, occorreva ricorrere alle carte: là stava scritto il nome di Bolt.
È un regolamento sciocco, ad esser generosi. Reso ancor più sciocco da tutta una serie di modifiche che attribuiscono altre “wild card” ai vincitori dei Giochi di Area, vale a dire i vari Campionati continentali. Non solo: pure i primi piazzati dei campionati mondiali di cross-country, così come i vincitori di alcune maratone – Gold Label marathon – pare abbiano il diritto ad esser iscritti ai Campionati del mondo anche se non in possesso di un risultato “standard A o B”.
L’ufficio “complicazioni cose semplice” ha lavorato, nell’inverno scorso, con straordinaria solerzia. Talvolta ci sorge il dubbio che silenziose talpe siano all’opera per rendere sempre più incomprensibile agli spettatori le manifestazioni atletiche. Quasi che, anche per il nostro mondo, l’antico detto – la madre degli stupidi è sempre incinta – continui a possedere un fondo di verità.

Ultimo aggiornamento Martedì 13 Agosto 2013 13:09
 
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