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Sapreste dire il nome del vincitore della prima corsa campestre dell'umanità? PDF Print E-mail
Friday, 23 December 2022 00:00

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Le copertine delle due edizioni dell'opera di Bruno Bonomelli «Corsa campestre, scuola di campioni»

 

Per poter rispondere al quesito del titolo, anzitutto, sarebbe indispensabile conoscere quale fu il primo cross dell’umanità. Ce lo insegnò il maestro Bruno Bonomelli (maestro con emme iniziale rigorosamente minuscola, vista l’orgia di maestri con la consonante pomposamente maiuscola) nel primo capitolo di un libricino stampato a Verona nel marzo del 1966, che aveva intitolato «Corsa campestre scuola di campioni». Il maestro elementare (come sua moglie Rosetta) di Rovato ne era l’autore insieme a Emanuele Carli, un altro dei primi storici dell’atletica italiana (due opere basilari su Dorando Pietri e su Adolfo Consolini), a nostro giudizio troppo trascurato. Il libro ebbe poi una seconda edizione, riveduta e ampliata, nel 1974, con l’aggiunta di un corposo capitolo sulla preparazione alla corsa firmato dal prof. Enrico Arcelli.

Bonomelli fu sempre il divulgatore battagliero delle corse campestri, che la Federatletica nazionale era riuscita perfino, in certi anni (1938-1939), a vietare agli atleti di primo livello, prona com’era alle vetuste teorie del medico Goffredo Sorrentino, propugnatore della inutilità se non della nocività dell’attività atletica invernale. In parole semplici, l’inverno era fatto per riposare non per allenarsi. Non è un caso che la nostra atletica tanto nel cross come nelle gare in pista coperta d’inverno è arrivata buonissima ultima. Tanto per dire: in Inghilterra il primo campionato nazionale di cross si tenne nel 1877, in Francia nel 1889, negli Stati Uniti nel 1890. Noi? Nel 1908. E nel mese di giugno…

Qual fu dunque la prima corsa attraverso i campi dell’umanità e chi ne fu il vincitore? Chi ha curiosità, voglia e tempo, si legga il primo capitolo di quel libro del 1966. La lettura prenderà qualche minuto di più che non l’alzata del pollice del «Mi piace» ma migliorerà la conoscenza storica, e non solo sportiva.

Da Troia ad Ostia…sulla rotta di Enea

La prima corsa a piedi, ricordata e descritta da Omero, cronista eccezionale, con abbondanza di particolari, è la sfida, avvenuta sotto le mura di Troia, fra Antiloco, Ulisse e Aiace d’Oileo, in occasione dei giochi funebri di Patroclo.

Fuori causa fin dalle prime battute è – diremmo oggi – «l’allievo» Antiloco, il più veloce e resistente dei giovinetti Achei. La lotta si restrinse quindi ad un duello fra Ulisse e Aiace. Questi sta per avere la meglio, ma Minerva interviene in aiuto del beniamino Ulisse e fa scivolare Aiace su un mucchio di letame, proprio in vicinanza del palo d’arrivo, mettendolo definitivamente fuori causa.

Ulisse vince così un cratere d’argento, Aiace un toro, mentre Antiloco, invece del prestabilito mezzo talento d’oro, riceve da Achille un premio doppio a consolazione della sconfitta.

La presenza del mucchio di letame dimostra «ad abundantiam» che il terreno non era stato preparato artificiosamente e che quella descritta nel libro XXIII dell’Iliade è una corsa campestre.

Fra tutte le gare atletiche moderne, che la specialistica distingue in corse, salti e lanci, le prime sono le uniche che si svolgono senza l’aiuto di alcuna attrezzatura. Potrebbero, e lo si è già visto nell’antichità, essere disputate da atleti perfettamente nudi.

Esse devono perciò essere ritenute come la simbolizzazione agonistica delle attività motorie dei nostri pelosi antenati; che, spinti da una fame rabbiosa e arretrata, rincorrevano le tenere gazzelle attraverso le praterie e nei sottoboschi, scavalcando, quando ve n’era bisogno, torrentelli e melmose valli, salendo e scendendo con il cuore in gola brevi ed erte scarpate.

Non ci vuole molta fantasia per identificare perciò nella corsa campestre la naturale palestra di ogni attività atletica dell’uomo; precedente ad ogni altro sport o giuoco.

Seguiamo ora passo passo quello che è stato il divenire della corsa campestre in Italia; non certo perché questa prova sportiva abbia avuto i suoi natali nel nostro paese, ma perché ciò ci permetterà di constatare quanto contrastato e difficile sia stato il cammino per l’affermazione di un principio che apparentemente sembrerebbe ovvio.

La notizia del cross arriva in Italia

Siamo nel luglio del 1898: a pagina 89 del supplemento mensile della Gazzetta dello Sport (numero abbinato di giugno-luglio) si può leggere sotto il titolo «Cross Country»:

«La traduzione letterale è corsa attraverso (cross) la campagna (country). Il cross-country fra i ludi sportivi che passarono ultimamente la Manica per attecchire sul continente, è il più geniale ed il più suggestivo, come quello che prepara il giovinetto a diventare marziale precocemente, cioè soldato prima dell’arruolamento, abituandolo a vincere mediante progressivo allenamento pedestre tutte le difficoltà ed accidentalità del terreno; sfidare le intemperie e l’inclemenza del tempo. La stagione agonistica del cross-country s’apre a novembre; in Inghilterra ed in Francia a partire da quell’epoca le associazioni scolastiche ed i club atletici iniziano l’allenamento dei loro corridori in attesa delle grandi gare, aspettate con tanta impazienza; il campionato interscolastico per i primi ed il cross-country nazionale per i secondi.

Tutte le domeniche mattina, con qualsiasi tempo, sotto la pioggia o sulla neve, i ferventi delle corse a piedi, gli aspiranti al campionato, si ritrovano in certi punti adatti, fuori delle città ed in certi luoghi vasti e boschivi, che permettano l’allenamento e che presentino e che presentino qualche ostacolo o accidentalità di terreno, favorevoli a questo genere di sport.

Al comando via dello starter la massa dei corridori si disloca ed i più svelti e nervosi si slanciano in breve alla testa dei compagni, sulle tracce dei ritagli bianchi, rossi, azzurri, gialli, or inabissandosi dentro un burrone, or arrampicandosi sopra un muro come lucertoloni bizzarramente screziati, or sollevando una nuvola di polvere su d’una carrettiera battuta».

Il pezzo, non firmato, prosegue dettando le principali regole per l’organizzazione delle gare e l’allenamento dei corridori; sulla distanza delle competizioni, variabile fra 10 e 16 chilometri.

Infine chiude con l’elencazione dei capi di abbigliamento necessari: maglia fina di lana o di cotone, pantaloni corti al ginocchio fatti di tela, scarpe da corsa, oppure sandali da bagno di mare, calze ad uso scozzese.

Come si vede nulla è sostanzialmente cambiato da settanta anni a questa parte; e se non fosse per quei pantaloni al ginocchio e per quei sandali da bagno di mare, verrebbe la tentazione di includere alla lettera quel pezzo del 1898, evidentemente tradotto da qualche giornale inglese, nel manuale del perfetto crossista o «pratista» come dicono i puristi del 1966.

Comunque il «pezzo» della Gazzetta non scosse l’ambiente peninsulare di fine e principio di secolo.

Non che mancassero in Italia fra il 1898 e il 1904 i cultori delle corse di lunga lena. Basterà infatti ricordare che uomini come il torinese Edoardo Oderio, detto Lampionato, il milanese Giacinto Volpati, grande assertore del professionismo, il romano Pericle Pagliani, si fossero avvicinati notevolmente, nei loro tentativi di primato sulla mezz’ora, ai 9 chilometri.

Ettore Ferri di Bologna, il 22 novembre 1903 sulla pista del velodromo di Genova, nel corso di una eccezionale sfida contro Volpati ed alla presenza di più di diecimila spettatori, aveva addirittura coperto nell’ora km. 17,459. Ciò era avvenuto quindici giorni dopo il trionfale successo del primo Giro di Milano, finito appunto con la vittoria di Ferri su Martinelli e Volpati.

Gli organizzatori di quei tempi preferivano però dedicare la loro attenzione alle gare su strada (classiche la Milano-Monza ed il Gran Premio Lazio), ai giri ed alle traversate di città che attiravano lungo il percorso migliaia di spettatori. Tra l’altro non era ben chiaro che il «cross» fosse una competizione prettamente invernale.

Ma i risultati delle corse campestri che venivano a getto continuo dalla Francia e soprattutto dall’Inghilterra, non potevano non suggestionare anche l’ambiente italiano, aperto allora a tutte le novità sportive.

Last Updated on Friday, 23 December 2022 21:41
 
Trekkenfild numero 113: cross, cross, e, tanto per cambiare, corsa in montagna PDF Print E-mail
Wednesday, 21 December 2022 10:16

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E adesso sfangatevi questo nuovo numero. Ci pare che il verbo sia adeguato, visti gli argomenti.

Last Updated on Wednesday, 21 December 2022 16:58
 
Adolfo Consolini, gigante sulla pedana del disco, ma soprattutto fuori dal cerchio PDF Print E-mail
Tuesday, 20 December 2022 00:00

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Attorno al feretro di Adolfo Consolini, si riconoscono, sulla sinistra, Pino Dordoni, Carlo Venini (il terzo) e Mario Lanzi (in fondo). Foto gentilmente concessa all'ASAI dalla famiglia Dordoni che custodisce l'archivio collezionato dal grande marciatore piacentino

 

20 dicembre 1969 – 20 dicembre 2022: cinquantatré anni fa chiudeva gli occhi Adolfo Consolini, l’indimenticabile figlio di contadini di Gazzoli di Albarè, alle porte di Costermano, dove ancora esiste la casa natale. Ricordare questa data e con essa la figura di uno dei più grandi campioni dello sport italiano è per noi dell’Archivio Storico dell’Atletica Italiana «Bruno Bonomelli» non una banale consuetudine ma un obbligo morale. Da alcuni anni un gruppo di nostri soci bresciani e veronesi andavano a rendergli omaggio in quella località che dal lago di Garda sale verso il Monte Baldo, per raccogliersi attorno alla tomba di «Dolfo» (così lo chiamavano in casa e lo conoscevano in paese) e deporre una corona di alloro, quelle foglie che hanno uno stretto legame con gli ideali classici di Olimpia, alloro che era la pianta consacrata ad Apollo in nome del quale si disputavano i Giochi Pitici a Delfi. Prima dell’A.S.A.I fu la Associazione Nazionale Atleti Olimpici e Azzurri d’Italia a rendere omaggio al sepolcro di Consolini ogni anno, immancabili Pino Dordoni, Fiorenzo Magni, Edoardo Mangiarotti, Carlo Monti, Mario Lanzi e molti altri.

Adolfo Consolini provò la gioia della vittoria olimpica, a Londra nel 1948, e la accarezzò quattro anni più tardi quando ottenne il secondo posto. Spese sulla pedana del lancio del disco buona parte della sua vita, dal 1937, quando prese parte per la prima volta ad una garetta comunale nel suo paese lanciando il peso, fino al 1969, quando lanciò ancora il suo adorato attrezzo a 43,94, ed era il 1° giugno. Sarebbe spirato il 20 dicembre.

Uomo mite, che sfoggiava un sorriso timido, parlava con una vocina in falsetto, era gentile con tutti e tutti, ovunque, gli volevano bene. Aveva vicino quasi sempre il suo esatto contrario, l’esuberante, a Roma direbbero caciarone, Beppone Tosi, l’altro indimenticabile discobolo, un uomo di forza prorompente e di sentimenti immediati, esplosivi. I due si vollero bene come, anzi più, di fratelli. Furono, e restano, i Diòscuri dell’atletica italiana. «I campioni della simpatia» come li chiamò con felice intuizione Marco Martini, dedicando a loro il più bel libro che sia stato pubblicato sulle loro vite.

Nello scrivere queste poche misere righe speriamo che il ricordo non sia solamente di noi pochi. Avremmo voluto prendere il traghetto a Maderno, attraversare il Benaco, arrivare a Torri e poi salire la strada che porta a Costermano, ma stavolta non è stato possibile. Su quella porzione di territorio veronese ci aiuta una bella frase scritta da Emanuele Carli nel primo libro dedicato a «Dolfo»; tolta la copia dallo scaffale, l’abbiamo cercata e trovata, dice: “Crebbe sano e robusto, fortificato dall’aria pura e salubre del monte (Baldo) e del lago (di Garda) …”. La stessa aria che oggi nel cimitero municipale di Costermano ne conserva le spoglie mortali, avvolto in quel marmo robusto come il suo torace e le sue braccia, sormontato dalla bronzea scultura del maestro Dino Morsani.

Last Updated on Tuesday, 20 December 2022 10:08
 
Armando Sardi e Ennio Preatoni, due più due fa quattro, quattro fa una staffetta PDF Print E-mail
Monday, 12 December 2022 15:11

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Da sinistra: siamo nel 1963, Ennio Preatoni, Armando Sardi e Sergio Ottolina sgambettano sulla pista del Campo Scuole di Brescia. Alle loro spalle si intravedono i capannoni dell'azienda chimica Caffaro, le cui scorie inquinanti, veleni e Dio sa quant'altro sono ancora lì, nel cuore della città della Leonessa. E dopo sessant'anni e sessanta miliardi di chiacchiere inutili nessuno trova una soluzione. Uno dei tanti, enormi scandali di questo Paese dove si sbriciolano le montagne e di pari passo la moralità. "Ahi serva Italia di dolore ostello, nave senza nocchiero in gran tempesta, non donna di province ma bordello"


Negli ultimi giorni i nomi di due importanti atleti dello sprint italiano, Armando Sardi ed Ennio Preatoni, si sono, casualmente, intrecciati sul nostro spazio Facebook che noi usiamo, seppure con molta moderazione. Abbiamo ricevuto uno di quei messaggi che si usano oggi, tipo faccine e pollicini alzati, talvolta perfino cuoricini quasi fossimo un sito di single solitari.  E a noi è venuto in mente che in archivio abbiamo alcune foto prese al Campo Scuole di via Morosini, a Brescia, che potevamo usufruire in questa occasione. Il primo messaggio di apprezzamento per qualcosa che avevamo pubblicato ce lo ha spedito Armando Sardi, ricordate? il velocista con gli occhiali, quasi sempre scuri, originario di Monza, gran staffettista.

Un paio di riferimenti, fra i tanti che si potrebbero fare. Giochi Olimpici Roma 1960. Il quartetto italiano schierò Armando Sardi – Pier Giorgio Cazzola – Salvatore Giannone – Livio Berruti, un lombardo, un veneto, un napoletano e un piemontese. Batterie, per gli azzurri la seconda, che vinsero davanti ai nigeriani: 40 netti manuale, 40”16 elettrico, nuovo primato italiano, il precedente durava dal 1956 (40”1). Semifinali, ancora la seconda: il quartetto turbo-jet americano vinse indisturbato, gli azzurri secondi (40”2/40”29) per un pelo sui sovietici, il cronometraggio elettrico ufficioso dice un centesimo. Finale: a riprova della teoria di un nostro amico allenatore, il quale sosteneva che il più importante segreto tecnico di una staffetta…è portare il bastoncino al traguardo, gli yankee il bastoncino lo portano sì al traguardo ma avendo cambiato in maniera irregolare. Dunque, Stati Uniti squalificati. Sai quante altre volte succederà a loro…Vinsero i tedeschi della Repubblica Federale, con primato mondiale eguagliato (39”5/39”66), fecero mangiare la polvere a tutti: sovietici secondi (40”1/40”24), inglesi terzi (40”2/40”32). Nel cronometraggio manuale gli azzurri ebbero lo stesso tempo (40”2), nell’elettrico un misero centesimo (40”33) ci separarono, quindi quarti. Dalla cronaca della «Gazzetta dello Sport» si può leggere: “I nostri hanno effettuato cambi buoni, però non mostrandosi irresistibili nella corsa. Per di più Giannone accusava un dolore alla coscia destra, costretto in una grossa fasciatura elastica. Berruti è uscito ultimo sul rettilineo, ed è avanzato sin quasi a pareggiare gli inglesi”.

Secondo collegamento con la foto. I tre atleti che sgambettano sulla pista bresciana a beneficio del fotografo sono, da sinistra, il giovane Ennio Preatoni, di Garbagnate, a quei giorni non ancora diciannovenne, Armando Sardi e Sergio Ottolina, altro lumard di Camnago Lentate. Dalla data della foto, giugno ’63 più o meno, trascorrerà un anno per applaudire il nuovo primato italiano della staffetta veloce e il primo tempo di un quartetto italiano sotto i 40 secondi: 39”8. Si schierarono così: Livio Berruti in prima, e poi nello stesso ordine della foto – coincidenza – Preatoni, Sardi, Ottolina. Avvenne a Saarbrücken nell’incontro con la Germania. Il giorno dopo Ottolina fece il primato europeo dei 200 metri: 20”4. Preatoni sarà componente fisso della staffetta 4x100 in altri sei primati nazionali fino al 1972 e al tempo di 39 secondi netti. Ebbe come compagni…di bastoncino due campioni olimpici: prima Livio Berruti e poi Pietro Mennea, che lo sarebbe diventato.

Quante cose può raccontare una foto! Che dedichiamo ad Armando e a Ennio.

Last Updated on Monday, 12 December 2022 17:50
 
Quando il simbolo dell’atletica vintage era la maglia azzurra con scudetto tricolore PDF Print E-mail
Thursday, 08 December 2022 11:29

Alessandria – Asti 50-43, Cogne Aosta – Cogne Imola 51-47. Due notiziette su «Tuttosport» del 5 maggio 1951. E poi ancora: La Virtus Bologna vince il triangolare maschile; Il Battisti Trento supera il COIN Mestre; A.T.A. batte Pirelli; Sconfitti a Vienna i triestini; Gli atleti della Pro Patria battono gli svedesi; Di misura la Colombo superata a Nizza; La squadra di Zagabria supera l’A.T.A. a Trento; Battisti Trento – S.A. Bolzano 54-46; qualche giorno dopo: S.A. Bolzano – Battisti Trento 55-46; Battuti dal Trionfo gli universitari marsigliesi; Vinto dalla Libertas il triangolare di Trieste; Il Trionfo Genovese vince a Lugano 58-36; Il Wiener a Trieste s’impone alla Giovinezza; Virtus Locarno –  Gallaratese 77-73; Marche – Lazio 48-45; L’ATA Trento a Zagabria ha perso di misura; La Ginnastica Triestina supera il Klagenfurter Athletik Club 83-60.

Che è ‘sta roba? vi chiederete. Son titoli di notiziette reperite sui giornali sportivi dell’anno 1951. Nei giorni scorsi ci siamo dedicati ai Campionati internazionali militari di quell’anno e ad alcuni atleti italiani in particolare che avevano ben figurato in quella occasione. Abbiamo quindi sfogliato una ricca raccolta di ritagli di giornale. Abbiamo poi collegato questa banale investigazione ad una lettera che ci aveva inviato tempo fa l’amico Daniele Poto, nella quale scriveva un elogio alla Maglia Azzurra ormai relegata a soli pochi, pochissimi eventi. Dietro? Il vuoto. O son Campionati, che hanno proliferato negli ultimi due decenni, o sono i cosiddetti meeting sempre più pallosi, a parte veramente pochi. Son sempre gli stessi che gareggiano, una specie di «compagnia di giro» superprotetta e ben pagata. Quanti saranno? Un paio di centurie, al massimo, che si spartiscono il bottino.

E gli altri che pur fanno atletica dove finiscono? In circuiti minori con la stessa logica ma molti meno quattrini, senza nessun interesse e divertimento, tanto per gli atleti in campo che per gli spettatori sulle semideserte tribune. Non parliamo poi delle corse su strada, inflazionate, insulse, con atleti che corrono spesso col freno a mano tirato, tanto vince il keniano o etiope o ugandese o nordafricano di turno, l’importante è tirare a casa qualche centinaio di piccioli, arrivederci e grazie. E tutto, pista o strada che sia, nel totale disinteresse della stampa, quella rimasta. Per i  superstiti appassionati di corse salti e lanci, non resta che andare a vedere i risultati sui cosiddetti social o sulle pagine Internet degli organizzatori. Ma state certi che la sera al bar nessuno vi saprà dire chi ha vinto il Giro del Campanile (* vedi nota al fondo), al massimo ti rispondono "un alter negher".

Ma com’era l’atletica una volta? Atletica vintage la chiama l’amico Daniele. Era una atletica che offriva uno spazio a tutti nella squadra del proprio club, magari una trasferta a Klagenfurt o a Marsiglia, o anche solo un viaggetto Trento-Bolzano o Bolzano-Trento. Si stava insieme, si conoscevano gli atleti di un altro club, si legavano amicizie. Le società affogano oggi in una pletora di garette provinciali e regionali, dove non si diverte nessuno, né chi corre e salta, né chi organizza. E nessuno guarda, a parte gli addetti ai lavori. Per completezza: quell’anno 1951, la Nazionale fu chiamata a sostenere cinque confronti con altrettante Nazioni europee; Belgio – Italia e Germania – Italia con gli uomini, Jugoslavia – Italia, Svizzera – Italia e Italia – Francia con le donne. Oggi gli atleti arrivano, mangiano, dormono, gareggiano, e la mattina dopo spariscono verso aeroporti, stazioni, autostrade. Una volta almeno si fermavano un po’ di più per ritirare la «moneta», oggi ci pensa qualcuno per loro e ormai tutto avviene con bonifico bancario.

Il nostro sito non è, non lo è mai stato, e non vuol essere, spazio di chiacchiere, di dotti editoriali, di dibattiti. Non ci interessa. Sola eccezione in questo caso: ci siamo ricordati della mail di Daniele Poto che tocca questo problema. E ne condividiamo l’ analisi.  Che si riflette poi sulla perdita di valore e di attaccamento, alla Maglia Azzurra. Non un incontro riservato alla squadra nazionale, solo Campionati o campionatini. Ci pare di sentirlo il furbone di turno: eh, ma quella era un’altra atletica. Sì, era proprio un’altra atletica.

* Absit iniuria verbis - Dire Giro del Campanile non è sminuire una corsa podistica. Serve solo un po' di conoscenza del tempo passato. La «Gazzetta dello Sport», quando era davvero al servizio dello sport, aveva promosso una serie di manifestazioni di atletica che aveva denominato le «Popolari della Gazzetta»: una gara veloce, il salto in alto, il lancio del peso che chiamarono «Sfera d'argento», e appunto il «Giro del Campanile», una corsa su strada o nei campi di due chilometri e mezzo. Sai quanti campioncini del mezzofondo son venuti fuori girando attorno al campanile! E come non ricordare una delle più belle corse campestri della nostra storia atletica: la «Sette Campanili» di Cavaria, in provincia di Varese. E i campanili erano davvero sette! Ci dicono che appassionati del luogo l'anno rimessa in vita, bravi!

Sentiamo adesso quello che ha da dirci Daniele Poto.

So che la cattiva versione del vintage può facilmente trasformarsi nell’obsolescenza. Ma per chi non l’ha vissuta vorrei ricordare un elemento identitario discriminatorio tra l’atletica di tempi ormai lontani e quella odierna. Faccio un esempio struttural-istituzionale e ne rintraccio le radici a pagina 624 dell’Annuario FIDAL 2022. È quella che elenca le presenze di sempre degli azzurri al servizio della Nazionale, quando era in vigore il full time e la piena disponibilità stagionale alle gare, fossero Giochi del Mediterraneo, incontri di nazionali, esagonali, il clou “Bruno Zauli” Ebbene, nella lista dei primi 30 uomini e prime 30 donne non c’è alcun azzurro di oggi, neanche quelli di più lungo corso, mettiamo Tamberi o Lingua. Elogio a Chiara Rosa, formichina che fa eccezione. Questo spicchio di storia esclude tristemente il presente e le ragioni tracciano la differenza tra il prima e il dopo. Oggi ci sono atleti che escludono la partecipazione al Golden Gala pur essendo azzurri di prima fila se non adeguatamente stimolati da mamma FIDAL, al pari di stranieri d’Oltreoceano. Altri che hanno perentoriamente chiuso la stagione dopo i Campionati europei, pur in presenza di risultati tutt’altro che esaltanti, per non parlare di quelli che hanno chiuso la stagione al lumicino con una prova mediocre in un meeting internazionale, mentre il resto del mondo correva e lanciava a tutto spiano. 

La diminutio è quella del passaggio da un’atletica comunitaria con un senso collettivo di proiezione nazionale all’individualismo mercenario. Colpa dei calendari, di una mentalità, della stessa Federazione? Certo se un Tamberi o uno Jacobs, alfieri e capitani del movimento, viaggiano e raggiungono la sede del grande evento per conto loro con un proprio staff che prescinde da quello federale si capisce che il centro decisionale si è spostato e dagli stessi non si può pretendere piena adesione. Vittorio Visini (62 presenze) capeggia un elenco che è un bel tuffarsi nel passato. Nell’elenco ci sono Damilano, Evangelisti, Mennea, Pamich, Donato, Lievore, Berruti, Mei tra gli uomini; Masullo, Simeoni, Dorio, Perrone, Pigni. Concedetecelo, era quella l’atletica che ci piaceva, non quella degli strizzacervelli, dei fisioterapisti d’essai, dei social media manager, delle mamme mediaticamente sovraesposte.

Last Updated on Thursday, 08 December 2022 18:48
 
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