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Agli albori del rapporto atletica leggera - letteratura: una novella di Salvaneschi PDF Stampa E-mail

Abbandoniamo, momentaneamente, atletica giocata, risultati, biografie, celebrazioni, ed immergiamoci in una lettura più impegnativa ma altrettanto affascinante: il risvolto socio-politico-culturale del nostro sport. Il titolo di oggi non lascia dubbi: il rapporto fra atletica e letteratura. Ci guida - e ci guiderà nelle prossime settimane - il prof. Sergio Giuntini, docente di storia dello sport, autore di decine di libri e centinaia di articoli, attento studioso del nostro sport. E in più, titolo di merito di non poco conto (veramente per noi, più che per lui!), socio dell'A.S.A.I. da molti anni. Altre volte abbiamo ospitato articoli e ricerche da lui firmati, l'ultima in ordine di tempo per ricordare la figura di Paola Pigni, repentinamente deceduta qualche settimana fa.

A Sergio il nostro vivo ringraziamento per l'arricchimento culturale che offre al nostro sito. A chi ci segue, un sommesso consiglio: leggete questi saggi, avete solo che da imparare. E noi con voi.

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Copertina del libro originale del 1921 che raccoglie le novelle sportive scritte da Nino Salvaneschi (Collezione privata)

Nella letteratura italiana del secolo scorso l’atletica leggera fa la sua comparsa in un interessante racconto di Nino Salvaneschi, “Il vincitore della Maratona”, dedicato a Gustavo Verona e contenuto nella silloge del 1921 “Il knock-out di Rirette. Novelle sportive” (Milano, Casa Editrice Italiana),  che può considerarsi il primo esempio significativo all’origine di una tale contaminazione. Già il Futurismo di Filippo Tommaso Marinetti nei suoi manifesti teorici aveva mostrato una peculiare attenzione per la modernità e dinamismo vitalista che promanavano dalle discipline atletiche, ma solo col testo di Salvaneschi questo sport assurge per davvero a fonte di ispirazione letteraria. E lo fa, risentendo delle roventi atmosfere post-belliche e della pesante sconfitta del cosiddetto “biennio rosso” che preannunciavano l’avvento al potere del fascismo. In questo senso “Il vincitore della Maratona”, oltreché  essere un’interessante opera narrativa, costituisce nel contempo un’utile fonte documentaria. Attesta il valore rivestito dalla letteratura nella comprensione delle diverse epoche storiche.

Nato a Pavia nel 1886 e laureato in legge, Salvaneschi, nel 1911, aveva pubblicato per i tipi milanesi di  Hoepli il primo manuale tecnico italiano relativo alle specialità della “neve” (“Sport invernali”) e nel 1912, con Giulio Corrado Corradini, fu tra i fondatori a Torino del “Guerin Sportivo”. Collaboratore de “La Gazzetta dello Sport”, “La Sera”, “La Stampa”, “La Tribuna”, “La Gazzetta del Popolo”, “Il Resto del Carlino”, egli per primo ricoperse pure l’incarico di Capo ufficio stampa del C.O.N.I., essendovi stato chiamato dal presidente Carlo Montù in occasione delle Olimpiadi del 1920. Giusto quei Giochi gli suggerirono “Il vincitore della Maratona”, scritto che risulta ambientato nel contesto di quell’edizione olimpica e si fonda su un dosato mix di realtà e finzione.

Alla prima appartiene la figura di Giorgio Croci (Gallarate, 19 aprile 1893), il quale fu primatista italiano dei 100 in 11”0 (Milano, 20 settembre 1913) e in 10”4/5 (Roma, 24 marzo 1918), nonché campione nazionale sulla distanza nel 1921 (11”1/5). E in campo internazionale disputò le Olimpiadi Interalleate di Joinville-le-Pont (1919) e, appunto, quelle ufficiali di Anversa correndovi i 100 e la 4x100. Alla seconda il personaggio di fantasia di Donato Zanesi, dietro cui, però, potrebbe riconoscersi Valerio Arri (Portocomaro, 22 giugno 1892). Vale a dire il maratoneta medaglia di bronzo in quell’Olimpiade (2h36’32”8), atleta d’indole anticonformista che arrotondava facendo il cantante di tabarin e il saltimbanco nei teatri. Un personaggio vagamente “anarchico”, al punto che, appena tagliato il traguardo ad Anversa, si esibì in un salto mortale al cospetto del presidente del C.I.O. Pierre de Coubertin, e da un punto narrativo perfetto nelle parti di Zanesi.

Dunque, venendo in breve alla trama, essa racconta d’un maratoneta sovversivo, il citato Zanesi, che vincitore dei 42 km e 195 m olimpici riscopre d’incanto, catarticamente, il valore del tricolore borghese, il perduto amor di patria, rifuggendo dai precedenti furori rivoluzionari. Di più, in questo suo intreccio tra reale e immaginario, Salvaneschi inserì nella narrazione alcune altre situazioni che ebbero per teatro Anversa e protagonisti degli atleti italiani. Da un lato una protesta, con conseguente sciopero del rancio, per il cibo considerato scarso e di pessima qualità. Dall’altro, ancora più clamoroso, un episodio di cui fu testimone oculare il conte Alberto Bonacossa. Il quale, a distanza di molto tempo, nel 1932 ne fece cenno su “La Gazzetta dello Sport”, quasi a voler sottolineare la differenza con quei tempi turbolenti grazie alla disciplina riportata in Italia dal regime fascista:«Si era nella stazione di Anversa nel 1920 - ricordava il Bonacossa -, quando da un treno scesero in branco disordinato gli atleti nostri che dovevano partecipare alle gare olimpioniche di tiro alla fune. Il gruppo scamiciato si avviò all’uscita cantando “Bandiera Rossa”. Rammento la nostra vergogna e lo sguardo interrogativo delle autorità convenute e la pietosa bugia da noi pronunciata a denti stretti: dicemmo che si trattava di un inno popolare». Per inciso, tra quegli “scamiciati” vi era anche Giuseppe Tonani, dell’Associazione proletaria d’educazione fisica (Apef) di Milano, che nelle Olimpiadi di Parigi del 1924 avrebbe vinto - tra i pesi massimi - la gara di sollevamento pesi alzando 517,5 kg. A corroborare  le forti tensioni politiche esistenti in seno alla rappresentativa olimpica italiana, che rispecchiavano plasticamente quelle esistenti nel Paese, è un’altra testimonianza significativa del marciatore Ugo Frigerio: fascista della “prima ora”, amico personale di Benito Mussolini e suo fruttivendolo di fiducia a Milano. Frigerio, nella sua autobiografia “Marciando nel nome d’Italia” (1934), scrisse in proposito:

È un triste episodio che chi sa quanti conoscono da tempo, ma credo non inutile riferire. Ho già detto che allora correvano tristissimi tempi di pervertimento sociale. Eccone una prova. Nell’intervallo fra le eliminatorie, le batterie e la finale dei 10 km avvenne che alla Casa degli italiani ad Anversa si verificarono incidenti di una certa gravità fra un minuscolo gruppi di atleti e maggiorenti del CONI. Il movente fu Sua Eccellenza il Rancio, che involontariamente entrò in causa senza colpa né peccato. I primi lamentavano a torto la penuria del…pane quotidiano, il quale invece era abbondante, ottimo e vario […]. I secondi, dal canto loro, risposero naturalmente per le rime alle stolte provocazioni. Ma lo sparuto gruppo non si dette per vinto, e mentre una parte di esso si comportò sempre benissimo durante le visite alla città, i rimanenti credendo forse di fare opera meritoria a sfogare il loro insano spirito di parte, e magari di ledere il nostro orgoglio nazionale, si misero a cantare gli inni del sovversivismo sotto l’atrio dell’italianissima Casa che ci ospitava. Rimasi tanto disgustato che pensai subito alla vendetta”.  Vendetta che Frigerio si prese vincendo la 10 km, e compiendo il tratto finale di gara sventolando un fazzoletto tricolore e gridando a pieni polmoni, recitano le sue memorie, “Viva l’Italia”. 

(fine prima parte - segue)