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Pino Dordoni campione olimpico settant'anni fa, un esercizio di memoria PDF Print E-mail

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A nostro giudizio, questa è l'immagine più bella, più vera, che vale più di qualsiasi parola, di Pino Dordoni che sta per assaporare il gusto unico di essere campione olimpico. E una delle meno viste, da settant'anni sui giornali appaiono sempre le stesse, senza un briciolo di sensibilità estetica. Guardate questa foto: l'atleta è appena uscito dal tunnel della Porta di Maratona per entrare nella pista, ha percorso, a questo punto, trentanove chilometri e mezzo. Si gira, lancia una occhiata, se fosse un'auto diremmo che è in curva. L'eleganza del gesto, la coordinazione delle gambe e delle braccia, la rilassatezza delle spalle, la serenità sopravvenuta dopo i momenti di difficoltà. Non sappiamo chi fu, ma bravissimo il fotografo che ha fermato questo momento indimenticabile

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Il 21 luglio 1952 era un lunedì. Si dovettero svegliare prima dell'alba (ci raccontano gli astri che era prevista alle 4.56) i trentuno atleti che avrebbero affrontato la gara più lunga del programma atletico: i 50 chilometri di marcia, passeggiatina di quasi cinque ore a quell’epoca, quattro ore e quaranta per quelli più bravini, per quelli bravi qualche minuto in meno, furono sei in tutto quelli sotto le 4 ore e 40 minuti alla conta finale. Questi trentuno erano lì a rappresentare sedici Nazioni: tredici europee, due dell’America del Nord (Stati Uniti e Canada) e una dell’America del Sud (Cile).

Il 21 luglio 1952 era un lunedì, a tratti pioveva, faceva freddo, e che vuoi pretendere dal clima nordico? Giuseppe Dordoni, detto “Pino”, da Piacenza, di ore ne impiegò quattro, di minuti ventotto e qualche secondo spicciolo, per vincere la sua Olimpiade. E tutti a strombazzare che quel tempo era il nuovo primato del mondo, e invece era il primato della gara olimpica, introdotta per la prima volta ai Giochi nel 1936. Neppure nelle sacre tabelle della Federazione mondiale esisteva allora un primato del mondo riconosciuto. Era solo la terza volta che ai Giochi si marciava su tale lunga distanza, prima c’erano degli scampoli di gare in pista che duravano poco. Roba da «facciamo in fretta» e togliamoci ‘sti sculettatori dai piedi. La marcia non è mai stata nel grembo degli Dei. Primato o non primato conta poco, il vero valore fu – è – la vittoria olimpica.

Il 21 luglio 1952 era un lunedì. Che giorno quel giorno! Lo celebrarono tutti, giornali, giornalini, giornaloni. Scriba con la penna intinta nella retorica, e anche scrittori veri prestati per qualche giorno alla narrazione sportiva, ma per tutti gli spazi furono extra large, e da riempire alle 19 di sera, ora critica per i quotidiani nazionali. Nella nostra ricerca di materiale per rimuovere la polvere dalla memoria sulla vittoria del campione piacentino, l’attenzione è stata richiamata da un singolare accostamento fra due scrittori dello stesso giornale, anche se fra di loro c’è un intervallo di cinquant’anni. Seguiteci.

Da «La Stampa» del 21 luglio 2002, Gianni Romeo, inviato

“Ricordate gli occhi di Pino Dordoni – amici lettori di un’età che fa rima con anta – nella foto scattata al traguardo della 50 chilometri di marcia, quando l’atleta piacentino conquistò la medaglia d’oro olimpica? Erano due tizzoni ardenti che bucavano il cielo, due lampi a rallegrare la maschera da eremita come hanno soltanto i marciatori. Quella foto, il 21 luglio 1952, fece il giro del mondo. Non c’era la tivù a trasmetterci le immagini del grande sport e quel giorno, un lunedì, gli sportivi per sapere dovettero accendere la radio, aggrapparsi alla voce di Vittorio Veltroni e Roberto Bortoluzzi, i due inviati della Rai. In un certo senso era meglio, senza tivù. La fantasia poteva galoppare, Dordoni che marciava era un semidio […]”.

Da «La Stampa» del 22 luglio 1952, Paolo Monelli, giornalista e scrittore

Ma anche di Dordoni c’è qualche cosa da dire. Sapete che arrivò freschissimo […] e compiendo il giro dell’arena salutava gli spettatori con un sorriso disteso. Il giornale di qui, stamattina, commentando l’arrivo di Dordoni, ha scritto che “dieci metri prima del traguardo frenò il passo e alzò le braccia al cielo e lentamente avanzò fino alla linea, estatico e quasi in trance, come se avesse voluto godere il più a lungo possibile il più felice momento della sua vita; poi cadde sfinito sopra una seggiola». «Non era che fossi sfinito – mi ha detto Dordoni – ma gli ultimi dieci chilometri ero stato tormentato dai crampi, per il freddo e l’umido dell’aria, ed in quel momento me li sentivo più forti che mai»; ma quella faccenda degli ultimi metri percorsi al rallentatore Dordoni non li smentisce, dice che giunto a pochi metri dal traguardo gli pareva di non arrivarci mai, «credevo di averlo passato e c’erano ancora due metri e dicevo tra me, sarebbe bella che dovessero proprio mancarmi le forze adesso». Dice il proverbio che la coda è sempre la più difficile da scorticare, ma pensate a questi dieci metri superati con fatica e con angoscia dopo cinquanta chilometri di marcia! […] Gli domando a che cosa pensava per tutto quell’interminabile tragitto, se aveva occhi per guardarsi attorno, vedere gli alberi le case il cielo la gente adesso che era rimasto solo. Mi guarda con due grandi occhi chiari, castagni. Ha un viso fine, lungo lungo il mento, il naso, le gambe, il corpo alto e snello. Ha 26 anni, lavora presso un negoziante di stoffe all’ingrosso a Bologna, ma lui è di Piacenza, e l’accento piacentino lo risento più vivo quanto più si anima nel racconto. «Dico che ho pregato più di una volta durante la gara. Quando non c’è più nessuno a cui rivolgersi, allora non resta che pregare. Poi negli ultimi chilometri, che ero restato solo, ogni tanto partivo forte, lottavo contro me stesso, per paura della monotonia del viaggio. Partivo, allungavo, scattavo, pensavo a casa mia, a mia mamma. Anche quando si sta bene e le gambe vanno ci vuole sempre anche il cuore per vincere. Entrato in pista mi sono messo ad andare fortissimo. Perché fare un giro veloce se ormai hai vinto? Mi chiedevo. Ma la gente urlava, applaudiva, e volevo dimostrare al pubblico che sapevo cosa facevo, che m’interessavo al suo stesso entusiasmo. Non so se mi capisce. E così salutavo ogni tanto, e tiravo via». E poi Dordoni mi ha detto di quei dieci ultimi metri che non riusciva mai a passare. E questo è stato il suo racconto; e mi pare un racconto onesto e pulito, ed anche un po’ patetico; con quella continua paura di scoppiare, proprio quando la fortuna lo favoriva; e quel senso che anche quando tutto va bene e la macchina è ladina e in ordine, c’è sempre da temere l’imprevisto; e quell’impegnarsi con se stesso, per far passare quel tempo interminabile, per quattro ore e mezzo sempre lo stesso ritmo meccanico delle gambe, delle braccia, delle spalle, sempre lo stesso pensiero, non devo scoppiare, devo continuare così, devo arrivare […].

E Pino arrivò. Chiudiamo qui, per oggi, nel segno della celebrazione di quel lunedì 21 luglio 1952. Esagerato dire celebrazione? No, per noi almeno che ci siamo prefissi lo scopo di tener viva la memoria del nostro sport. Manomettendo un po’ le ultime parole di Gianni Romeo, scritte venti anni fa, anche noi diciamo:” Se a settant’anni dal successo e a ventiquattro dopo la morte, fa ancora scrivere e parlare di sé, vuol dire che Dordoni è davvero entrato fra gli immortali dello sport”.