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Bargossi, vita grama di un povero podista nelle terre di S.M. Apostolica PDF Stampa E-mail

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"...Fu dunque pedibus calcantibus che visitammo Gorizia, Trieste, Pirano, Capo d'Istria, Pola e Fiume. Erano strade infernali quelle, e ci capitò altresì di guadar torrenti, valicar montagne, tal fiata sotto la sferza di un sole che avrebbe fatto arrossire quello del Tropico, tal'altra sotto una pioggia torrenziale...". Questo leggiamo alla pagina 18 del libricino autobiografico di Achille Bargossi, pubblicato a Forlì, sua città natale, nel 1882. Facciamo omaggio di queste parole, e di quelle che seguiranno, al nostro segretario Alberto Zanetti Lorenzetti, che possiamo considerare uno dei più accreditati studiosi delle vicende sportive di quelle terre istriane. E, ovviamente, a tutti i lettori del nostro sito che avranno ancora la bontà di leggerci. E non si stupisca se legge qualche verbo sintatticamente sbilenco, o nota punteggiatura avventurosa, noi abbiamo deciso di copiare il testo tale e quale.

Bargossi, a quel tempo, viaggiava con Luigi Bertaccini, di Meldola, che gli aveva chiesto consigli e volle unirsi a lui nelle peregrinazioni pedestri in Italia e fuori. Anni dopo se ne andò per la sua strada, e chiuse i suoi giorni nel 1877 all'Aja, in Olanda.

"...E appena arrivati in qualche borgata o città, ci dovevamo, magari a pancia vuota, raccomandare ancora alle nostre gambe per provvedere del materiale, come dicono i saltimbanchi, alla fabbrica dell'appetito. E non era raro il caso in cui, dopo una marcia di trenta o quaranta chilometri susseguita da una gara alla corsa, non ci trovavamo d'aver raccolto abbastanza di che sfamarci.

"Ebbene, credete voi che la sfiducia e lo scoramento s'infiltrassero, per ciò, nell'animo dei due corridori? Manco per sogno! Si facevano quattro salti e via di corsa in cerca di un villaggio o di una città più generosa. E le strette della fame, la stanchezza, i disagi non ci fecero mai passare nell'animo il pensiero di un'azione disonesta. Lo dico qui a lode di me non solo, ma altresì del mio povero compagno, nel quale, colla mia istruzione trasfondeva anche il mio coraggio e l'inesauribile mia allegria...Pure vi fu un giorno, gran brutto giorno!, in cui poco mancò non perdessimo la nostra allegria. Anzi non assicuro che non la perdessimo quel giorno là. Il guaio si fu che insieme all'allegria si rischiò di perdere la santissima pazienza, e che il carattere romagnolo avesse a scattare fuori. E se ci fossimo spinti sino a suonare quattro ben assestati lattoni, sangue di una locomotiva!, non avessimo avuto po' poi tutti i torti. Giudicane tu candide lector.

"Avevamo viaggiato, sempre coi cavalli di S. Francesco, tutta quant'è lunga una notte e parte d'una giornata, per recarci da Pirano a Fiume. Strada montuosa e disagevolissima, sotto una pioggia persistente e con un freddo che faceva il termometro avvicinare allo zero colla premura di un ministro delle finanze. Non parlo dello stomaco: c'era dentro quel vuoto che in una macchina pneumatica allo stato di mancanza d'aria. Non avevamo più nemmeno la voglia di cantare le nostre canzonette, tanto s'era uggiti e stanchi. Ne sorreggeva solo la speranza di fare buoni affari a Fiume, città popolosa e intelligente. Vi arrivammo alla fin fine; e sboconcellato un pezzo di pane, che inafiammo con...acqua pure dei torrenti, ci recammo subito da quel signor commissario di polizia per avere il permesso di dare una corsa. Era obbligo in noi di chieder licenza all'autorità di polizia, ma per esserci mai questo permesso stato negato, e trattandosi altresì che, pur desiderando in cuor nostro che quelle povere provincie ritornassero in seno alla madre Patria, non avevamo però mai avuto la melanconia di fare propaganda di queste nostre idee, e che se s'era sollevato qualcosa sui nostri passi, fu la polvere, e non certo le popolazioni, noi avevamo dunque finito per convincerci, che quella del chieder licenza fosse una pura e semplice formalità. Ehi! state a sentire.

"Quel signor commissario dunque, dopo averci squadrati d'alto in basso, rispose alla nostra domanda di permesso con un'altra domanda. Cos'eravamo cioè venuti a fare negli Stati di S.M. Apostolica. Che sia sordo? dissi tra me, e ripetei che eravamo due buoni diavolacci e che si ci guadagnava da vivere facendo delle corse. Ma quel grifagno commissario aveva forse subodorato in noi dei congiurati irredentisti, poichè ci rispose chiaro e tondo che siccome eravamo italiani, così andassimo a correre in Italia, come se dove eravamo allora non fosse...basta! chinammo il capo davanti a quella perla di funzionario. Ed io non potei a meno di convincermi che per essere commissario bicipite quel cretino aveva pochissimo cervello.

"Si ritornò dunque indietro, per timore che ci potesse capitar di peggio. E così poche ore dopo rifacevamo la strada percorsa, ed il giorno dopo si giunse a Trieste stanchi, sfiniti e con pochi centesimi in tasca. Fatti cauti dall'accoglienza del poliziotto di Fiume, non ardimmo ridomandare licenza di dare un'altro spettacolo a Trieste, dove ci eravamo prodotti pochi giorni avanti. Motivo per cui, scarseggiando sempre più il denaro nostro, al pomeriggio dello stesso giorno...gambe in spalla e via per Gorizia...".