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Orlando Cesaroni, Arturo Balestrieri e perfino il grande tenore Beniamino Gigli Stampa
Mercoledì 03 Febbraio 2021 00:00

Augusto Frasca ci conduce oggi con il suo racconto ad un altro protagonista dello sport pedestre dei primissimi decenni del Secolo XX: Orlando Cesaroni, corridore romano di lunga lena, che si allenava e faceva le gare a piedi scalzi. È una bella storia che intreccia altre storie, che riporta alla memoria del lettore nomi, professioni e avvenimenti che compongono il mosaico storico della nostra Nazione: giornalismo, arte, opera lirica, di anni che datano fra i cento e centoventi anni fa.

Di Cesaroni si era occupato anche Marco Martini (citato dallo stesso Frasca) in una voluminosa compilazione storica in tre volumi, che vide la luce fra il 2003 e il 2007, grazie al mecenatismo degli organizzatori della Maratona di Roma: «Il segreto dei pionieri» e «Storia dell'atletica laziale». Quasi pleonastico aggiungere che si trattava di uno studio approfondito del podismo prima e dell'atletica poi, dalle origini fino al 1975. Da quei libri abbiamo ripreso le due immagini che corredano il testo di Frasca, immagini di non buona qualità ma dobbiamo fare di necessità virtù.

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Nella foto sopra: Orlando Cesaroni (maglia bianca) con un altro campione romano dell'epoca, Ettore Blasi, l'immagine è datata 1920. In quella sotto: Cesaroni, contornato dal consueto sciame di ciclisti, solitario al comando della Maratona di Roma, il 9 settembre del 1911 (Le foto sono riprese dai libri di Marco Martini che citiamo nella presentazione)

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I  piedi scalzi di Orlando

di Augusto Frasca

Mezzo secolo prima di Bikila. Bianco, romano, fornaio. Arti selvatici, secchi, incalliti. Correva a piedi nudi in un mondo podistico cui dagli esperti fu a lungo graziosamente sconsigliato bere acqua sia in allenamento sia in gara. Nella primavera del 1929 una febbre alta bloccò la struttura longilinea di Orlando Cesaroni in un albergo popolare di Brooklyn alla vigilia dell'impegno nella traversata da New York a Los Angeles: un'avventura, quella corsa, una follia, un far west di ritorno, una miniera multietnica, un lungo giallo costruito in settantotto tappe giornaliere e in immensità di genti e territori da un'umanità deambulante fatta di dannati e di eroi, di ricchi e poveri, di bianchi e neri, di mariti fatti becchi da mogli infoiate, di nobili squattrinati e di coatti con obbligo di firma inseguiti dal Federal Bureau Investigation, un picaresco caravanserraglio, sicuramente di forte carica suggestiva, per di più esaltato dalle esoteriche diversità di un territorio allungato in migliaia di chilometri.

Orlando Cesaroni era nato a Roma all'inizio dell'ultimo decennio del diciannovesimo secolo, quasi in coincidenza con i tempi in cui Il Messaggero apriva le sue pagine, primo tra i quotidiani nazionali, ad una rubrica sportiva, dando quindi spazio alle imprese da strapaese domestico di un concittadino che andava incrociando polvere, gambe e polmoni con i grandi dell'epoca, da Dorando Pietri ad Emilio Lunghi fino a Pericle Pagliani, lo strillone di Magliano Sabina involontario propiziatore, in un giorno d'aprile del 1904, nella piazza centrale di Carpi, della saga che avrebbe reso immortale con la corsa del secolo il piccolo uomo nato diciannove anni prima a Mandrio di Correggio. In Italia e a Roma sport e corsa erano polifonia pura in quel grande teatro della strada suscitatore di passioni dove spesso gli uomini si ritrovano uguali, un linguaggio di robusta schiettezza popolare contrapposto agli agonismi d'élite, anch'essi all'epoca di moda, come scherma, equitazione, tiro a volo. Retta da Pio X, un Pontefice d'origini venete vincitore in gioventù d'una gara di marcia nella nativa Riese, la stessa Santa Sede aveva aperto le mura del Vaticano ospitando nel settembre del 1908 gare di atletica con italiani, belgi, canadesi, francesi e irlandesi su una pista di quattrocento metri e a cinque corsie allestita nel cortile del Belvedere.

L'Italia atletica d'inizio secolo ventesimo era quella che aveva in Arturo Balestrieri il massimo ermeneuta. Sulle pagine della Gazzetta, a sua firma veniva esaltato «il magnifico ruolo avuto dal Lazio nella evoluzione degli sports atletici della nostra nazione, anche quando questi sports fiorivano giocondamente nelle altre regioni, e piùspecialmente nel Piemonte, nella Lombardia e nella Liguria». Di quelle epoche, Balestrieri fu dunque figura di spicco, e ne avemmo direttamente conferma in occasione delle celebrazioni dei centoventi anni della Polisportiva Lazio dalle mani della nipote Erika, attenta custode di documenti originali conservati nella sua abitazione di Albissola. Fu atleta polivalente, vincitore tra l'altro delle prime tre edizioni del Giro di Roma di marcia, cedendo poi il posto a Silla Del Sole. Ufficiale nei Cavalleggeri di Montebello, medaglia al Valor civile per aver tratto in salvo nel 1899  dal Tevere un individuo «precipitatovi a scopo di suicidio», fu tra i fondatori, il 9 gennaio del 1900,  della Lazio, estensore di pubblicazioni tecniche di atletica, nuoto e pallacanestro, dirigente, arbitro di pugilato, segretario della Federazione Podistica Italiana, giornalista nelle edizioni olimpiche di Stoccolma, Anversa, Parigi e Amsterdam. Nel 1934, sessantenne, all'abbandono della sua attività professionale, la Gazzetta lo salutò con queste parole: «Raggiunti i limiti d'anzianità stabiliti dalle norme contrattuali il camerata ed amico cav. Uff. Balestrieri rag. Arturo, il quale militava fedelissimamente nei ranghi redazionali della Gazzetta dello Sport dal 1909, dopo esserne stato il corrispondente da Roma, ha cessato il suo abituale lavoro in questi giorni. Al collega che con competenza, probità e fede inestinguibili, ha offerto il meglio delle proprie capacità fisiche e intellettuali alla causa dello sport – perché Arturo Balestrieri è stato anche dei primi valorosi campioni del podismo italico – la Gazzetta rivolge il saluto affettuoso e cameratesco».   

Tornando a Cesaroni, è il caso di sottolineare che negli oltre venti anni di carriera il podista romano corse centinaia di gare, gran parte delle quali nella capitale ma non disdegnando, secondo certosino recupero filologico realizzato da Marco Martini, trasferte a Milano, Torino, Modena, Genova, Napoli, Bordighera. Apogeo, nel 1911, la conquista del titolo italiano sulla massima distanza tra le mura di casa, 41 chilometri in 2h41:27, in una Roma impegnata nelle celebrazioni del Cinquantenario dell'unità d'Italia attraverso gli spettacolari allestimenti dell'Esposizione Universale, sparsi in particolare tra l'antica Piazza d'Armi, l'attuale quartiere Prati, e Valle Giulia, con Gustav Klimt e gli eccezionali rivoluzionari del Futurismo pronti ad affondare la lama sulla pelle di un mondo artistico nazionale addormentato, solito svegliarsi solo per soffiare scandali sulle novità.  

Momento fortunato per il nostro amico, nel 1913, l'incrocio con maglia ed ambienti dell'Audace, lo storico club di via Frangipane – quattro passi dal Colosseo, dal Mosè di Buonarroti, dalla loggetta in via Cavour disegnata da Raffaello – società celebre per avere tra i suoi tesserati Enrico Toti e Beniamino Gigli, l'eroico bersagliere mutilato caduto sul Carso e il tenore glorificato nei teatri di tutto il mondo. Quando, a trentanove anni suonati, incuriosito dall'eccezionalità della gara ma inchiodato, senza una lira nel portafogli, dagli esiti del vaccino iniettatogli a Napoli, fu costretto a rinunciare ai 5.927 chilometri della New York-Los Angeles, la Trans American Foot Race, il podista romano dovette alla comune appartenenza all'Audace la svolta insperata d'un momento disgraziato. A conoscenza delle difficoltà del connazionale, fu il cantante nativo di Recanati, per intere stagioni dominatore al Metropolitan sulla scia di Caruso e la cui bellezza vocale si accompagnava a una non comune generosità, a toglierlo d'impiccio. Lo ospitò nella sua residenza nuovaiorchese fino al ristabilimento della salute, mettendogli poi in tasca tremila lire, somma necessaria per il viaggio di ritorno, e per qualcosa di più. In quell'occasione, l'Italia podistica del tempo fu comunque magnificamente rappresentata da Giusto Umek, l'impetuoso patriota triestino sostenuto nella trasferta dalla Fernet Branca e dall'appoggio personale di Luigi Barzini, direttore al Corriere d'America, terzo al traguardo della corsa inventata l'anno avanti su percorso inverso, dalla costa pacifica a quella atlantica, da Charles Pyle, un avventuroso agente di sportivi e di gente di teatro. Quanto avventuroso fosse l'organizzatore s'ebbe conferma al momento della riscossione dei premi: in luogo dei 6.500 dollari spettanti al terzo classificato, ad Umek non restò in mano che la notifica della fuga di Mr. Pyle, e con essa la scomparsa dei 25 dollari d'iscrizione e 100 di deposito a testa versati dai 90 partenti da New York. Dalla Trans American Foot Race, Tom McNab, scozzese, ha tratto un'affascinante lettura, La sfida di Flanagan, tradotta e pubblicata nel 1983 nella nostra lingua da Sperling&Kupfer.   

Raggiunti i quarantuno d'età, mentre affinava le sue doti professionali di massaggiatore nelle società romane, Lazio calcistica compresa, nel 1931 Cesaroni decise di mettere un punto all'attività agonistica e di lasciare nero su bianco una memoria scritta delle sue gare, trovando nella romana Edizioni Gloria spazio per la pubblicazione di un pressoché introvabile Le mie 39 maratone. Non avendo tra le mani l'introvabile, resta un mistero glorioso conoscere le ragioni del perché, in inizio di Novecento, un uomo avesse deciso di farsi crescere i calli correndo a piedi nudi. Orlando Cesaroni morì a Latina, nel 1954.  

Ultimo aggiornamento Mercoledì 03 Febbraio 2021 11:57