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L'oro della medaglia olimpica non sbiadisce mai: Luigi Beccali Stampa

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Era il 3 agosto 1932... Quel giorno...Vi vogliamo parlare della quarta medaglia d'oro olimpica entrata nel bottino del Comitato olimpico italiano, che, ovviamente, i successi se li appunta sul petto come i generaloni di tutti gli eserciti del mondo quando ci sono le parate militari ufficiali. O, più semplicemente, entrano nelle statistiche dello sport nazionale. Nel nostro caso dell'atletica. Luigi Beccali, milanesissimo, conquistò la vittoria olimpica sulla pista del megastadio Colisuem Memorial di Los Angeles, in una disciplina di corsa, i 1500 metri, dopo le tre auree medaglie di Ugo Frigerio, guarda tè altro milanese verace, nella marcia. Abbiamo tolto da uno scaffale della biblioteca il volume rilegato della collezione della rivista federale «Atletica», anno 1982, mese di febbraio, numero 2, pagine 76 - 79, pubblicazione che nacque un anno dopo il trionfo di Beccali, nel 1933, e che, tra alti e bassi, è arrivata fino ai giorni nostri. Non è una cronaca stavolta, ma una intervista, una bella intervista. Non poteva essere diversamente: la scrisse Giorgio Reineri, di cui abbiamo già sparso incensi, e non vorremmo cominciasse a pensare al Nobel della Letteratura. Vale la pena rileggerla, anche se è un po' lunga, per chi ha gusto per il nostro sport e per la lettura. I lettori dei giornali cosiddetti sportivi possono farne a meno: a loro bastano trenta linee. Giorgio intervistò Luigi Beccali, dice il sommario dell'articolo, «a cinquanta anni dalla vittoria olimpica, una storia di cavalli, di incomprensioni, di successi, di sentieri perduti». Questo articolo, parzialmente modificato, entrò poi a far parte qualche mese dopo (novembre 1982), del libro «nel nostro futuro CENTO ANNI DI GLORIA», celebrativo dei cento anni della Società Ginnastica Pro Patria Milano, con le firme di Alfredo Berra, Oscar Eleni e Giorgio Reineri.

Le due foto che pubblichiamo sono riprodotte dal numero 1, gennaio 1933, della rivista «Atletica». Ecco, integrale, anche il testo che accompagnava le foto:" Le fotografie che qui sopra riproduciamo mostrano due episodi della meravigliosa prova di Beccali a Los Angeles. Una di queste fotografie, quella che riproduce l'arrivo, è conosciutissima: la pubblichiamo però perchè serve a lumeggiare e mettere maggiormente in valore l'altra che è assolutamente inedita. Questa fotografia ci mostra Beccali a 100 metri dall'arrivo della sua meravigliosagara mentre da poco ha iniziato il suo spettacoloso finale di gara che lo porterà alla vittoria. In questa fotografia si vede il canadese Edwards che ha quasi imboccato il rettilineo e che ha ancora un buon vantaggio su Beccali: a pochi metri dal Canadese vi è l'Americano G. Cunningham che giungerà quarto. In terza posizione è Beccali in piena azione e tutto teso verso la conquista della vittoria che lo deve consacrare campione olimpionico. Alle spalle del nostro campione è l'inglese J. Cornes che prima della metà del rettilineo sarà staccato da Beccali, ma che riuscirà dopo a raggiungere Edwards ed a terminare secondo, ben lontano però dal nostro campione".

Beva acqua e corra

di Giorgio Reineri

"NEW YORK - Ho incontrato Luigi Beccali: scatta per le strade di Nuova York con lo slancio di cinquant'anni fa. Il mezzo secolo non gli ha rallentato i riflessi, semmai un poco ammorbidito i muscoli: e, rispettoso delle proprie gambe, non le provoca né umilia: usa, per competere con le automobili, una Pontiac così maestosa e lunga da parere un siluro. Al volante del bolide, Beccali saltella e sorride; saltella per sollevare il busto e lanciare occhiate, fuori dalle vetrate dell'auto, agli avversari del traffico; sorride a chi gli siede accanto, e il suo sorriso ha lo smalto della simpatia e della freschezza: che sia l'America il suo segreto?

"In America, Luigi Beccali ci approdò la prima volta che sono giusto cinquant'anni: era il 1932, anno dell'Olimpiade. In agosto potrà celebrare le nozze d'oro con la vittoria, che avvenne a Los Angeles, e rimane la sola conquistata da un italiano nella corsa delle corse: i 1500.

"Luigi Beccali è difatti il mezzofondo: ne fu l'iniziatore, in un'Italia povera e soprattutto ignorante; ne è rimasto il simbolo, per chiunque si rivolgesse alla memoria statistica cercando giustificazione alla propria pratica agonistica o, più semplicemente, alla passione atletica.

"Luigi Beccali è anche stato, per le generazioni del dopoguerra, un mistero. Misteriosa la sua sparizione dall'Italia, il suo viaggiare negli Stati Uniti, quasi l'avesse spinto laggiù il cumularsi della nostalgia, il desiderio di tornare su antichi passi, solenni e vibranti falcate. Misteriosa, infine, la ragione tecnica dei suoi successi: quali furono i sentieri percorsi per arrivare al record del mondo, ai titoli olimpici ed europei, italiani ed universitari; quali le fatiche, gli allenamenti, quali i consiglieri del campione olimpico? L'anedottica ufficiale aveva affidato il successo di Beccali alla fede nel fascismo e nella patria: retorica per mascherare il menefreghismo e l'incompetenza. Altri, più saggi, alla classe: il profondo e inesauribile pozzo del talento, dal quale attingono le genti fortunate. Che Beccali avesse ricevuto il bacio della sorte, nessuno ne può dubitare: ma la natura non lavorata con fatica e intelligenza, basta per dominare il mondo?

"Siamo stati a Nuova York perchè la domanda ci punzecchiava da tempo. L'opportunità nasceva da un invito di Beppe Mastropasqua, fatto ad Oscar Eleni, Alfredo Berra e al sottoscritto: raccontare i cent'anni della Pro Patria. La Pro Patria compirà il secolo che Beccali avrà appena superato i cinquant'anni dal successo olimpico. Pro Patria e Beccali sono stati il più celebre binomio dello sport italiano. Luigi entrò in Pro Patria che aveva sedici anni, nel 1923: non cambiò mai colori sociali.

"Della sua storia, di uomo e d'atleta, di migrante senza una lira ma ricchissimo di volontà e orgoglio; dei successi e delle sconfitte più brucianti, Luigi Beccali ci ha narrato mentre viaggiava per Nuova York, scattando ai semafori, saltellando sul sedile di guida, preoccupandosi di un business, portandoci infine a pranzare all'italiana, nel più italiano e raffinato ristorante della città, Silvano, zona Village (6ª Avenue, tra Houston e Bleecker Street: ci va sempre Robert De Niro).

"La storia di Beccali sarebbe troppo lunga (e fuori posto, pure: è da scrivere, come capitolo, nel più ampio libro sulla storia della Pro Patria) raccontarla qui: qui si può dire, invece, del problema tecnico, che potrebbe anche incuriosire sino a crescere a vero e proprio oggetto di ricerca.

"Solo e vero allenatore di Luigi Beccali fu il professor Dino Nai. Il professore non era un tecnico: era uno scienziato. «Ho una sola esperienza - disse Nai a Beccali - conosco il cavallo: ho allenato un cavallo. Se ti va, allenao anche te».

«Benissimo, mi va» rispose Beccali.

"Era da poco passata l'Olimpiade del '28, che Beccali aveva malamente sciupato. «Avevo ricevuto la proibizione di allenarmi proprio nel mese precedente le gare. Era successo così: si dovevano disputare i campionati italiani, ed io ci tenevo a vincerli, perchè sarebbe stato il mio primo titolo nazionale. Vado e vinco, ma non faccio il record. Beccali è stanco, gridano allora i tenci federali e mi spediscono insieme a Facelli, in montagna, a Monghidoro, sull'Appennino toscoemiliano. Andiamo, portandoci dietro la proibizione assoluta di allenarci. Mangiare e riposare, è l'ordine. Via, per farla breve quando torno alla sede degli allenamenti sono così grasso che non riesco neppure a camminare. Ad Amsterdam è un disastro: Facelli non vince, io non vado in finale.

- Ci era il responsabile della preparazione?

"C'era Gaspar, un ungherese. Brava persona, ex-campione di salto in alto. Per la verità, lui mi disse di essere contrario, ma che gli ordini della Federazione erano quelli e andavano rispettati.

- E lei non protestò?

"Io litigavo sempre, ma come facevo ad oppormi, qualche volta? Fatto sta che ad Amsterdam, in batteria, finisco quarto e arrabbiatissimo. Il giorno dopo vado ad allenarmi e giuro di non seguire mai più i tecnici federali, ma di fare di testa mia.

- E com'erano gli allenamenti, allora?

"Allora, nessuno sapeva niente. L'allenamento era considerato pericoloso: la maggior parte ne faceva uno il mercoledì, e poi riposo sino alla gara della domenica.

- E Nai?

"Nai introdusse il concetto del lavoro. Ci si allenava il martedì, giovedì e venerdì. Poi, tra il '28 e il '32 io avevo preso ad allenarmi due volte al giorno, di nascosto. Oddio, allenamenti che adesso fanno ridere: andavo, il mattino, rubando un'ora di lavoro al Comune di Milano, presso il quale ero geometra, a correre al campo Simonetta, che era il dopolavoro dei Ferrovieri. Il campo Simonetta, vicino alla celebre villa e dietro al Monumentale, aveva per custode Saporiti. Saporiti era stato un discreto saltatore con l'asta: mi lasciava cambiare, correre per tre chilometri e poi fare la doccia. Questto era l'allenamento del mattino.

- E il pomeriggio?

"Il pomeriggio andavo al Giuriati, con Toetti, Ferrario ed altri. Svolgevo esclusivamente lavoro di velocità.

- Così vinse l'Olimpiade?

"Anche così, ma c'è un altro episodio. Succedeva, in genere, che io d'estate rendessi pochissimo, anzi, non rendevo neppure se mi prendevano a calci. Nai era preoccupato: non riuscivamo a capire il motivo, malgrado il lavoro fatto fosse ben studiato. Un giorno, Nai mi dice:«Senti, ti mando da un dottore che non conosce lo sport ma la medicina sì. È il primario dell'Ospedale Maggiore di Milano». Ci vado: m'interroga, mi chiede cosa faccio, perchè corro e poi mi fa una domanda:«Beve acqua?». No, dico, non bevo perchè m'hanno detto che l'acqua, dopo aver sudato, fa male. «Beva!», grida il primario, «beva e non dia retta a questi ignoranti, che non sanno niente e rimangono sempre indietro. Beva e vedrà che tornerà a correre forte». Difatti, bevo acqua quando ho sete, prim, durante o dopo l'allenamento e risolvo tutti i miei problemi. E faccio il record del mondo e vinco l'Olimpiade: in grazia dell'acqua e di quel piccolo consiglio.

"Adesso ci ride sù, Beccali. Ha posteggiato la Pontiac ad una stazione di servizio: manca acqua? mi viene da domandare.

"No, manca aria nelle gomme, ghigna lui e poi:«Però, se non metto aria nelle gomme, mica si va avanti: è proprio come l'acqua per un corridore».

"La storia dell'acqua è la rivelazione di quanto i luoghi comuni e l'ignoranza abbiano condizionato la gioventù italiana: e ancora la condizionano, perchè essi si tramandano di generazione in generazione, e certa medicina è la grande divulgatrice di quest'inciviltà, per via delle massicce schiere dei suoi adepti, fedeli servi di professori e primari che, a loro volta, raramente hanno usato il cervello. Tutto in fondo è stato scritto da Céline ne «Il dottor Semmelweis», storia di un medico che curò e vinse la febbre puerperale ma venne, dai suoi colleghi, messo al bando. E, dunque, non sarebbe stato il caso di tornarvi se quest'episodio di Beccali non ce ne avesse dato l'occasione. L'occasione di ridire una parola contro i pregiudizi e l'ignoranza, tra il quale grande e immobile rimane il concetto che la fatica sia disdicevole al campione.

"Luigi Beccali ha così rappresentato, nell'allenamento del mezzofondo, lo sperimentatore: curioso esploratore della corsa, capace di spingere, ben oltre i limiti che erano stati posti dai luminari dell'epoca, il proprio sguardo e , assieme, le gambe.Ma la sua testimonianza di oggi, a mezzo secolo dalla vittoria olimpica, mai raccolta da alcuno negli anni del dopoguerra, anzi, forse, volutamente ignorata, da molti, è la prova provata del perchè il mezzofondo italiano abbia troppo a lungo balbettato.

"Beccali avrebbe potute essere il punto di partenza, l'iniziatore di una scuola tutta nostra; si sarebbero anticipati di dieci e più anni gli Hagg e gli Andersson e la bella compagnia delle renne svedesi: invece su Beccali, calò il silenzio.

"Perchè?

"Perchè Beccali fu il più duro, strenuo oppositore e accusatore di Boyd Comstock. Comstock era arrivato in Italia nel 1935, portato dal marchese Ridolfi, presidente federale: veniva dalla California, dove aveva allenato l'Ucla e la Southern California; conosceva certo alcune tecniche, doveva indubbiamente possedere carisma e spirito acuto, ma forse conosceva poco il mezzofondo.

"La mia sconfitta a Berlino, nel 1936, è da addebitarsi a Comstock e Ridolfi. Loro mi hanno messo in condizione di perdere, di farmi battere da Lovelock, e poi hanno rirato fuori la storia della scarpata, che avrei subito in partenza. Quella fu una storia e basta. La verità è un'altra, sibila duro Beccali.

- Qual è dunque?

"La verità è che una settimana prima della gara, ero ad allenarmi al campo di Charlottenburg, in Berlino. Corro tre volte i 300 e mi sembra di essere in forma: giornalisti italiani si complimentano e mandano i loro servizi: Beccali vola, titolano. Io torno al Villaggio e Ridolfi mi chiama:«Comstock m'ha detto che oggi hai fatto schifo», grida duro. Schifo? - dico io, non m'è proprio sembrato. Però, sento le gambe che mi tremano: in fondo, ero il campione olimpico, e a difendere il titolo ci tenevo. Cosa volete che faccia?, chiedo con i nervi a fior di pelle. «Riposo», dice. E riposo faccio, per una settimana: così finisco terzo, perchè al momento di scattare ho gambe di piombo, come mi era successo soltanto nel 1928.

"Questi ed altri episodi ci vengono offerti oggi alla meditazione: non con spirito di polemica - e come potrebbe Beccali, dopo mezzo secolo - ma con il rimpianto di chi avrebbe avuto molto da insegnare e, invece, fu abbandonato sino a dover emigrare negli Stati Uniti. Offrono, anche, la chiave di lettura, di troppe lentezze nello sviluppo della tecnica atletica o, almeno, della tecnica del mezzofondo azzurro. Certo Comstock è stato un volano di sviluppo, ma, forse, anche un freno: la sua personalità non ammetteva di competere con quella di Beccali. Altri erano gli allievi di Comstock: Riccardi, Oberweger, Caldana su tutti. I suoi insegnamenti fecero scuola sino agli anni Sessanta: gli allievi li interpretarono puntigliosamente. Beccali, emigrato in America, non se ne sarebbe certo detto d'accordo: oltreoceano poteva osservare ben altri sviluppi e constatare come la fatica fosse alla base dei progressi del mezzofondo. Fatica che il Italia veniva tenuta in poca considerazione sino allo spuntare di Francesco Bianchi (scuola Venini) e di Franco Arese (con Tino Bianco). Il mezzofondo italiano ritornava ad imboccare anche grazie a Bresciani (Gervasini) ed a Funiciello con il gruppo romano, sentieri intelligenti, soprattutto per merito del professor Di Gregorio: quei sentieri che Luigi Beccali aveva preso a tracciare più di trent'anni prima".