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Edoardo Giorello, schivo patriarca di una atletica di un tempo che non ritorna Print

È trascorsa una settimana da quando Edoardo Giorello ha lasciato i suoi cari e i suoi amici, fra questi alcuni di noi che con lui hanno avuto, nel tempo, consuetudine di frequentazioni. Abbiamo cercato di raccogliere materiale per prendere congedo da lui e per non dimenticarlo. Ci siamo rivolti a chi lo ha «visto da vicino». Pasquale Bongiorno, atleta nei suoi anni giovanili allenato da Edoardo e con lui co-autore di alcune pubblicazioni di questi ultimi anni, ci ha messo a disposizione una completa selezione di foto del tempo che fu. La penna (oggetto virtuale ormai, da mercatino vintage) di Guido Alessandrini ha riempito una pagina di intimo e affettuoso ricordo dell'uomo che fu suo allenatore negli anni '70, "primo e unico" ha aggiunto lui. Genovese, aspirante velocista negli anni giovanili, rigoroso e preparato giornalista in quelli della maturità nel quotidiano sportivo torinese «Tuttosport», oggi, lasciato il giornale, «spalla» del telecronista della RAI Franco Bragagna per gli eventi dell'atletica leggera.

Non vogliamo guastare immagini e parole con superflui nostri commenti. Vi lasciamo alla lettura, ringraziando Pasquale e Guido per il loro contributo.

Le foto. La prima: siamo negli anni '70, cambio della staffetta Marathon Relay fra Giorello (con la maglia del Liceo Mazzini) e Paolo Boretti, uno dei migliori velocisti liguri di ogni tempo. La seconda: Edoardo, a braccia incrociate, in veste di allenatore con un gruppo di suoi atleti, sempre negli anni '70. La prima verticale, a sinistra: il giovane Giorello riceve incoraggiamento dal suo allenatore Michele Autore, uno dei primi tecnici innovatori delle metodologie di allenamento per i mezzofondisti, la foto data 1958. Infine il nostro nei panni di organizzatore: fu, per esempio, tra coloro che diedero vita alla Mezza Maratona di Genova.

 

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Il Prof se n’è andato. Strano. Perché qualunque fosse il “campo” (nel senso di impianto sportivo: scusa, non possiamo vederci perché alle cinque devo andare “al campo”) e qualunque fosse il clima, lui c’era. Sempre. Lo sanno tutti i ragazzi che Edoardo Giorello ha allenato nell’ultimo mezzo secolo. Per l’ultimo saluto eravamo in tanti, quasi tutti ormai ex ragazzi ma anche un piccolo esercito di giovani che l’hanno avuto come insegnante al liceo. E poi colleghi, amici, insomma la vasta comunità che un uomo di poche parole ma molti fatti ha coltivato pazientemente lungo la propria vita.

Edoardo Giorello è stato il mio allenatore. Per dieci anni. Traduco: era il mio punto di riferimento. Da lui ho scoperto e capito l’atletica, il rigore, le metodiche di allenamento, i programmi personalizzati (fogli di quaderno con i disegnini degli esercizi, le posizioni, i tempi, le distanze delle ripetute, i recuperi) ma anche cos’è lo sport. Cioè: prima l’ho assorbito, dopo l’ho capito. Anche Dado è arrivato dopo, quando avevo lasciato il campo per la redazione torinese di Tuttosport: “Adesso basta lei, dammi del tu”.

Dopo ho capito che anche grazie a lui avrei fatto il giornalista, scrivendo sul bollettino autarchico e ciclostilato (Chiamate Cus 303001) dove si occupava di statistiche e commenti. E che quei suoi numeri, liste, primati e ripresa del passato si chiama memoria e che la memoria è importante e senza quella siamo ben poco.

Dopo, appunto, mi ha chiesto qualche articolo per i libri con i quali ha ricostruito la storia del Cus Genova ma anche dell’Amatori e dell’atletica ligure, aiutando gli ormai pochi che danno il valore a quel che è stato, a conservare la propria storia. Ecco, lì ci siamo capiti proprio bene perché prima, insomma, mica mi ero accorto che oltre al cronometro e alle liste stagionali c’era un universo.

Dopo ho capito l’importanza di un certo tipo, preziosissimo e incancellabile, di territorio: il centro del secondo del rettilineo del Carlini e la siepe all’uscita della prima curva di Villa Gentile (i nostri due “campi”) erano le tane da cui noi ragazzi ci muovevano per le ripetute e a cui tornava un gruppo di atleti diventati, sera dopo sera e anno dopo anno, amici. Lui era lì, al centro di tutto. E certi pomeriggi, dopo le cinque, ancora adesso la nostalgia di quel territorio punge e insieme scalda il cuore. E riemerge il ricordo di nomi e caratteri di quegli anni Settanta: Mario Boldrin, il primo talento, e poi Boretti, Bertolotti, Falletta, Campazzo, Sommariva, Stragiotti, Porri, Buongiorno (che da Dado ha preso il testimone trasformato nell’”Onda Biancorossa”, il libro del cinquantenario cussino che lascia viva una passione, una testimonianza e direi anche una speranza già alimentata da Angela Cartasegna, compagna di Edoardo).

Dopo ho capito che è stato uno dei, come dire, soci fondatori della sezione atletica del Cus Genova, che a fine 2019 ha celebrato appunto i cinquant’anni: primo allenatore di una pattuglia rivoluzionaria, e lui pronto a dimezzare il proprio piccolo stipendio di tecnico pur di avere un collega (Alberto Tartarini, un mito) che facesse decollare la squadra femminile. È stato realmente un costruttore, raccogliendo a scuola talenti grandi, medi o anche minuscoli perché può sempre capitare che la squadra ne abbia bisogno: qui non si butta niente. Uomo di poche parole, il Giorello. E anche di confronti aspri, fino al punto da portarlo fuori dal Cus (all’Amatori e al Trionfo Ligure, allora rivali) fino alla riconciliazione finale (“È bello chiudere dove si è cominciato”).

Dopo ho capito che quella sua stravagante passione per la maratona – lui nato ostacolista-velocista e allenatore di velocisti – era una filosofia di vita e insieme una doppia strada: da una parte la soluzione perfetta per faticare finalmente in solitudine e raggiungere ferocemente e con metodo i suoi nuovi obbiettivi e dall’altra la chiave per entrare in contatto con un’altra comunità, quella delle corse lunghe, dove ovviamente, anche lì, ha scoperto come organizzare, inventare, coagulare, aiutare. 

È stato un addio mesto ma bello, avvolgente. Forse anche perché padre Buono ha usato le parole di tutti noi, ricordando quando anche lui – anni Settanta - veniva “al campo” per farsi allenare da Dado (“e il giorno che sono stato ordinato sacerdote e me lo sono trovato davanti senza preavviso, mi ha abbracciato ed è scoppiato a piangere...”). Per quell’ultimo saluto allo schivo e un po’ ruvido patriarca si è materializzata una sceneggiatura che gli sarebbe piaciuta molto: mattinata d’inverno ma tiepida, sole splendido che – davvero - ha accarezzato con delicatezza e con affetto tutti quanti. E poi si era lassù arrampicati ad Apparizione, a due passi da casa sua e a una spanna dalla vetta del monte Fasce, con una vista su Genova, sul mare e sulla costa da rimanere senza fiato. Dado riposa lì, vicino alla chiesa, quasi potesse controllare dall’alto quello che combiniamo. Cercheremo di fare i bravi.

Ciao Dado.